mercoledì 8 agosto 2012

Il narratore di fronte alla sua opera (segue)

Si dirà: la ragione della narrativa sta nel vocabolo stesso che la definisce, ossia, molto semplicemente, nel raccontare una storia. Ma non è affatto così semplice. E’ stato detto infinite volte (partendo da Aristotele, il quale, qualche millennio fa, ha delineato i fondamenti del fare poesia per mezzo della parola nella sua Poetica, concetto ribadito  anche in tempi più recenti da Benedetto Croce e da Borges) che il narratore, ossia colui che è impegnato nell’ottenimento dell’effetto estetico, non ha niente a che fare con il predicatore o il moralista; il compito di questi due soggetti è quello di ammaestrare, mentre il narratore può solo aspirare a dilettare o commuovere. Eppure, lo scrittore moderno sembra non possa più fare a meno di domandarsi, magari a posteriori, cioè quando ha concluso la sua opera (perché durante la composizione, come ho detto, non può farlo, in quanto il lavoro lo assorbe completamente), qual è il senso e quale lo scopo di ciò che ha fatto, e perché lo ha fatto. Sembra insomma che la modernità abbia imposto una responsabilità in più allo scrittore, non solamente quella di assolvere al compito primario dello scrivere in funzione estetica, vale a dire di produrre pathos, estasi, catarsi, ma anche di conferire un senso più alto – di ammonimento, di suggerimento, di insegnamento – alla narrazione di storie.
Forse anche in epoche più felici per la narrazione, allorché il romanziere si accontentava di confezionare un prodotto capace di suscitare nel lettore quella reazione emotiva che compete alla scrittura estetica, gli interrogativi sul senso del raccontare storie erano presenti in qualche modo alla coscienza di chi scriveva. E può anche darsi che epoche felici per la narrazione, in cui cioè ci si accontentava di confezionare un bel romanzo capace di divertire o commuovere, non ve ne siano mai state; oppure siamo noi moderni, ancora una volta, a voler vedere in ogni opera di narrativa un significato più elevato, più complesso della semplice vicenda raccontata e del diletto che essa ci procura. Probabilmente oggi non siamo più capaci di gustarci una narrazione con l’animo candido che animava i nostri progenitori. Prendiamo, tanto per limitarci ad un unico esempio, quella che viene considerata la prima narrazione in forma di romanzo confezionata all’interno della cerchia della cultura europea: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il Don Chisciotte può essere considerato un esempio classico – il primo del suo genere – di narrazione felice. Infatti, se letto con animo candido, il romanzo può essere gustato, e goduto, come un susseguirsi di avventure sempre avvincenti, di volta in volta - per l’appunto - divertenti o commoventi perché l’alternarsi delle scene comiche o buffe o bizzarre con quelle drammatiche o tragiche o patetiche è incessante per tutta la durata del racconto. Sennonché tutte le generazioni avvicendatesi dopo la comparsa di quest’opera vi hanno trovato, di fatto, ogni sorta di allusioni simboliche, di messaggi morali, filosofici, pedagogici.
Credo infine che nessuno abbia saputo definire la posizione dello scrittore – la peculiare e paradossale posizione dello scrittore – meglio di quell’eccellente critico letterario e studioso del costume che è stato il francese Roland Barthes. Scriveva Barthes in un suo saggio di alcuni decenni fa: “Lo scrittore è un uomo che assorbe radicalmente il perché del mondo in un come scrivere. E il miracolo è che questa attività narcisistica sollevi incessantemente, in secoli di letteratura, un’interrogazione al mondo: chiudendosi nel come scrivere, lo scrittore finisce per ritrovare il problema aperto per eccellenza: perché il mondo? Qual è il senso delle cose?”
Più recentemente la questione dello scrivere (del perché scrivere, e quindi del come scrivere) ha trovato un’ulteriore complicazione nella volontà delle ideologie politiche affermatesi nel Novecento (fascismo, nazismo, ma soprattutto comunismo perché più duraturo e quindi capace di penetrare più a fondo nelle coscienze) di asservire le arti, e con esse la narrativa, alla loro ideologia in funzione di propaganda e di consolidamento del potere che avevano instaurato. Anzi, più che di ulteriore complicazione, in questo caso si deve parlare di vero e proprio snaturamento, perché qui si è verificato proprio il contrario di quanto sosteneva Aristotele già tanto tempo fa, ossia che il compito dello scrivere in funzione estetica non può essere quello di ammaestrare gli uomini (peggio ancora, di indottrinarli), bensì quello di commuoverli.
C’è dunque un dualismo inevitabile nell’esercizio della letteratura, che oscilla tra il suo compito primario di produrre poesia e quello, secondario (o accessorio) di fornire un esempio o un insegnamento. Scadere decisamente da quello primario a quello secondario produce cattiva letteratura, ed è indubbiamente per questo che, con l’asservimento della letteratura all’ideologia, abbiamo avuto tanta cattiva letteratura, soprattutto dalla seconda metà del Novecento in qua, forse perché il veleno dell’ideologia massificatrice e globalizzante si è trasferito con estrema facilità dal regno dei Soviet a quello dell’impero delle grandi eminenze oligopolistiche e totalizzatrici del liberalismo globalizzato contemporaneo, dove vige la completa omogeneizzazione del pensiero all’insegna del politically correct. Non a caso Harold Bloom, il grande critico letterario americano morto recentemente, collega la mediocrità di tanti romanzi di oggi al fatto che essi si facciano portabandiera del politicamente corretto.
(Dionisio di Francescantonio)






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