sabato 1 settembre 2012

TOMMASO LANDOLFI, UNO SCRITTORE PER POCHI? (segue)



Questo senso d'inutilità o d’impotenza si traduce in angoscia, com’è ovvio, ma un’angoscia di fronte alla quale conviene reagire facendo spallucce e fingendo noncuranza, magari anche una certa dose d’irrisione. Un atteggiamento, questo di Landolfi, che ha avuto una duplice conseguenza sulla sua produzione, riverberandosi sia nel modo particolare di raccontare ch’egli ha sviluppato, sia nel suo rifiuto d’impegnarsi in un’opera di grande respiro come il romanzo. Egli ha infatti scritto solo racconti e prose varie; anche dove  il numero delle pagine supera il centinaio (come in Racconto d’autunno), l’ispirazione e il tono restano pur sempre confinati nella dimensione del racconto. Ma è soprattutto nello stile che vien fuori quel tono particolare di distacco che denota il suo scetticismo e, si sarebbe tentati di pensare, quella sorta d’insicurezza verso il proprio scrivere, se non fosse per il virtuosismo della scrittura, derivante da una conoscenza della lingua italiana talmente cospicua da poterne disporre con abilità e creatività inesauribili. Ma si tratta d’uno stile che sembra voglia ricalcare quello d’un altro, come se l’autore non si fidasse della propria voce e avesse bisogno, per esprimersi, di affidarsi (più esattamente, di fingere d’affidarsi) a quella d’un altro. Non siamo quindi sul terreno della parodia d’altri autori, ma su quello della finzione della parodia di autori, che solo vagamente ci rimandano a Gogol, a Puskin, a Cechov, a Dostojevskij, a Hofmann, a Edgar Allan Poe, a Kafka, a Stevenson (tutti autori che Landolfi conosceva bene e dei quali spesso tradusse l’opera in italiano). In altre parole, Landolfi, per vincere il suo scetticismo nei confronti della letteratura, ha bisogno, per esercitarla, d’indossare una maschera. Da autore pienamente immerso nella modernità, soffre, insomma, di quella perdita di fiducia nei confronti della narrazione tradizionale come strumento adatto ad esprimere la complessità (o meglio, nel suo caso, l’ambiguità, l’inafferrabilità) dell’esistenza; un po’ come fa Borges, altro narratore caratterizzato da scetticismo verso il proprio strumento e che, nei suoi racconti, s’inventa addirittura l’artificio di far recensire libri immaginari da autori inesistenti.
Scrittore originale e anomalo, dunque, che proprio nella patina d’antico di cui si riveste spesso la sua prosa, e nell’uso insistito di vocaboli inattuali, sempre però in chiave ironica e, qui sì, parodistica, e attraverso cui denuncia proprio la diffidenza nei confronti della lingua ormai logorata dall’uso e ricoperta dalla polvere del tempo (cosa che ha indotto taluni critici del passato a definirlo erroneamente un “eccentrico ottocentista”) dimostra la sua modernità e attualità. Ma scrittore anomalo soprattutto per il suo rifiuto di concedersi al grande pubblico. Come ha scritto il critico Carlo Bo, occorre, per capirlo, valutare “il dato della sua purezza, della sua impossibilità di confondersi nella storia o soltanto col suo tempo. Criterio che vale per le sue letture, per i suoi scrittori-modello, per la sua retorica che non si è mai accostata agli ismi del tempo, alle mode, alle leggi della tribù… E’ stato il vero solitario della letteratura del nostro Novecento, un solitario cosciente, un volontario dell’isolamento assoluto”. Moravia, suo contemporaneo e scrittore mondano per eccellenza, poteva dire di lui con sufficienza che non otteneva il successo perché conduceva vita troppo appartata. Ma oggi chi ha voglia di rileggere quello che ha scritto Moravia? Mentre la scrittura di Landolfi continua ad attrarre e affascinare chi, nella letteratura, cerca quel piacere insostituibile che ci introduce in un mondo insolito e sorprendente dove tuttavia riconosciamo quella parte di noi stessi che giace nelle fessure del nostro io meno esposto, senza contare il piacere di assaporare una prosa ricca e preziosa che ha il potere di inchiodarti alla pagina. Certo, questo volersene stare appartato, probabilmente per non confondersi con la schiera di scriventi ideologizzati che ha popolato il nostro Novecento, è costato caro a Landolfi, un grande scrittore che ha sempre avuto pochissimi lettori. Ci ha provato Italo Calvino a conquistargli un po’ di lettori curando e pubblicando per Rizzoli, nell’ormai lontano 1982 (Landolfi era morto nel 1979 e in vita aveva pubblicato solo presso Vallecchi, casa editrice marginale e ormai scomparsa), un’antologia dei suoi racconti, Le più belle pagine di Tommaso Landolfi. Ma, come rilevava Carlo Bo nell’introduzione ai Tre racconti, un volumetto ripubblicato sempre da Rizzoli nel 1990, Calvino non era riuscito a rovesciare la condizione di scrittore senza lettori di Landolfi. Da qualche anno in qua ha ripreso a pubblicare le sue opere l’editore Adelphi, ma c’è da dubitare che questo lavoro encomiabile abbia conquistato a Landolfi un vasto pubblico di lettori; almeno in Italia, paese tuttora afflitto da troppi scriventi privi di talento e altrettanti critici ideologizzati, perché all’estero si sono accorti di lui e hanno cominciato a tradurlo. Perfino un critico esigente e dal palato fine come l’americano Harold Bloom, recentemente scomparso, lo inserisce, unico italiano insieme a Calvino, in una scelta compiuta tra Ottocento e Novecento di autori di racconti d’ogni nazionalità per insegnare a Come si legge un libro (titolo d’un saggio pubblicato nel 2000). 
Senza dubbio c’è il Landolfi meno ispirato, la cui produzione soffre talvolta eccessivamente della sua – come dire – non completa convinzione rispetto allo scrivere, inteso come gioco futile, sperpero di capacità preziose gettate troppo facilmente al vento e disperse come fumo. E’ questo che può indurre il lettore alla diffidenza e al rifiuto. Ma nei suoi momenti migliori egli è capace di scandagliare magistralmente le zone ai margini tra il notturno e il diurno e, addentrandosi nei meandri occulti dell’essere umano, creare una sorta di specchio deformante del suo animo per meglio delinearne i guasti e mostrarci quindi l’uomo contemporaneo in tutta la sua patetica e ormai patologica insufficienza umana. Cito, per brevità, solo un racconto, La moglie di Gogol, dove questo risultato raggiunge vette di verità profonda, pur risolto nel suo registro grottesco che non esclude il divertissement, naturalmente sempre di carattere colto e raffinato, immancabile in Landolfi.
La moglie di Gogol (novella che avrebbero potuto concepire Kafka e Borges) è raccontata da un immaginario biografo dello scrittore russo. E chi meglio di Landolfi, che ne aveva tradotto l’opera intera e sapeva tutto della sua vita, poteva arrogarsi il diritto di parlare della sua moglie segreta? Gogol, nella realtà, non si era sposato mai, soffriva di depressioni e crisi mistiche e si lasciò addirittura morire d’inedia a quarantatré anni dopo aver bruciato i suoi ultimi manoscritti. Il Gogol di Landolfi sposa invece un pallone gonfiabile in sembianze di donna, che assume forme e dimensioni diverse a seconda dei capricci del marito. L’uomo, pur pazzo d’amore per la moglie, vuole possederla nelle più differenti sembianze e, indubbiamente perché sedotto da un’idea esotica e oscura del femminino, la chiama Caracas come la capitale del Venezuela, quanto di più lontano insomma da un abitante delle gelide pianure della grande Russia. Il rapporto, pur percorso da improvvise folate di gelosia da parte dell’uomo, va avanti nella passione più accesa, finché Gogol si ammala di sifilide, malattia di cui incolpa ingiustamente la consorte. La accusa perciò apertamente di tradimento, quindi di egoismo e di frigidità sessuale, tanto che lei, vinta dall’amarezza, si rifugia in uno zelo religioso quasi maniacale. Alla fine Gogol, mentre è intento a modellare la moglie in una nuova forma, soffia troppa aria dentro al pallone e lo fa scoppiare. Il gesto viene compiuto in preda alla collera, sconsideratamente e, quando lo scrittore vede i resti della bambola sparpagliati dappertutto, si pente e piange amaramente. Ma poi raccoglie i pezzi e li brucia nel caminetto, così come, nella realtà, ha bruciato le sue opere inedite. Dopo la catastrofica conclusione di questo rapporto, il biografo si preoccupa di difendere pietosamente il protagonista dall’accusa di percosse verso la moglie, mossagli da alcuni male informati, e rende  l’ultimo omaggio al genio dell’infelice scrittore.
Dionisio di Francescantonio
  

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