lunedì 29 ottobre 2012

RIDEFINIRE IL VALORE E IL SENSO DEL CINEMA?



Provo a chiarire cosa voglio dire perché oggi c’è una grande confusione su questa questione, e lo faccio usando un’esperienza personale. Io, da piccolo, sapevo che cos’era l’arte perché avevo scoperto molto presto di saper disegnare e dipingere e quando (diciamo allo scoccare dei miei primi dieci anni)  mi chiedevano: “Cosa farai da grande?”, rispondevo invariabilmente e ultraconvinto: “Il pittore”, vale a dire uno di quei mestieri destinati per definizione a produrre arte, cioè quel prodotto magico che ci incanta e ci fa sorridere o indignare o commuovere, come dire battere il cuore un po’ più forte del solito. Però, fino a tredici anni, di cinema avevo masticato solo generi western, cappa e spada, polizieschi, sandaloni etc. (quella roba che definiamo di consumo, insomma) e non avevo messo in conto, se non molto vagamente, che quello che rappresentava il passatempo della domenica pomeriggio (mio come d’altri coetanei e anche di tanti adulti assieme ai quali mi infilavo in un salone buio dove si compiva, su un telone bianco, lo straordinario effetto d’una visione altra della vita, molto più fantastica e avventurosa della nostra), che quel passatempo, insomma, potesse produrre poesia, cioè la sensazione d’essere in presenza del sublime e del pathos che ti comunica l’opera d’arte. Poi, a quattordici anni, vidi Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e, di colpo, capii che il cinema poteva essere un efficacissimo mezzo di produzione di quella magia che chiamiamo arte.
Il settimo sigillo: il cavaliere gioca a scacchi con la morte
  Ho fatto un nome importante - quello di Ingmar Bergman - proprio perché voglio arrivare immediatamente al nocciolo del tema. Il settimo sigillo è un’opera difficile, specie per un ragazzino di quattrodici anni, un film che costringe l’uomo  a interrogarsi addirittura sul senso della sua presenza nel mondo, e tale interrogativo investe la questione della fede in una vita ultraterrena e quella del valore della vita dell’ uomo rispetto ai suoi simili. 

Il settimo sigillo. il cavaliere Antonius Blok









Il settimo sigillo: il saltimbanco e la moglie









 Il cavaliere – il protagonista del film –  torna da una crociata che lo ha profondamente deluso e dice di sé: “Il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura, indifferenza verso il prossimo, verso i miei irriconoscibili simili”. Ma, dopo aver attraversato e osservato nel suo itinerario i segni dei drammi e delle tragedie degli uomini (la guerra, la pestilenza, la collera, l’adulterio, la superstizione che induce a mettere al rogo una strega presunta), si riscatta sottraendo alla morte la famigliola felice del saltimbanco che ha il dono della visione (salva quindi gli artefici di quella magia suprema che rappresenta il teatro, primo linguaggio della creazione artistica e antesignano dello stesso cinema, cioè il linguaggio scelto da Bergman) e in tale buona azione riconosce il volto del prossimo e nel prossimo il suo stesso volto. Può quindi accettare serenamente la morte, che ha tenuto a freno sfidandola a giocare a scacchi con lui, poiché ha trovato nell’atto d’amore compiuto un riflesso di quel Dio dal quale chiedeva invano un segno di riconoscimento.
Questo, più o meno, il succo che in filigrana si coglie dal film. Ma, più che dal suo significato, è attraverso la grande emozione visiva che l’opera di Bergman trasmette, dalla potenza drammatica delle sue sequenze e dalle suggestioni evocative delle sue immagini che essa riceve il sigillo dell’arte. Bergman rivela in questo film di essere un vero e proprio stregone del linguaggio cinematografico, giocando con la luce in modo da produrre uno smagliante contrasto di bianchi e neri (a cominciare dalla scacchiera su cui il cavaliere si gioca con la morte la possibilità di ottenere qualche ora di vita in più)  e riuscendo a coniugare il gioco intellettuale dell’allegoria, dei richiami simbolici ai segni dell’Apocalisse e del dubbio esistenziale, con una raffinata poesia delle immagini destinate a illustrare i sigilli apocalittici: la carestia, la peste, la violenza, la fame, il potere. Ecco, mi pare di poter dire che, con questo esempio, ho fornito un’idea, grosso modo, di quello che distingue il film d’arte dal film di consumo, cioè della differenza che esiste tra il film che vale la pena d’esser visto e quello alla fine del quale, se siamo palati fini, se siamo educati al bello ed esigiamo di nutrirci di esso, ci lascia l’impressione d’aver buttato via due ore.

Dionisio di Francescantonio

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