giovedì 31 gennaio 2013

IL CINEMA DI ORSON WELLES





Quarto potere
Eppure, nonostante le limitazioni e i condizionamenti incontrati, Welles ha realizzato alcuni dei film più memorabili della storia del cinema, pieni di  intuizioni geniali, di innovazioni tecniche nel linguaggio filmico, con un uso inedito della cinepresa e degli obiettivi in funzione espressiva (fu uno dei primi cineasti ad usare il grandangolare) che gli permetteva di ottenere spesso una resa drammatica di potenza quasi ipnotica. La sua genialità si svelò precocemente quando, ancora ragazzo, fu scritturato come attore nelle più importanti compagnie di teatro di prosa di New York e di Chicago, giungendo presto a realizzare proprie regie di opere di Shakespeare. Lavorò anche alla radio, in trasmissioni che rivelarono la sua straordinaria capacità d’impadronirsi di questo strumento mediatico per esprimere le sue grandi doti drammatiche, al punto che, il 30 ottobre 1938, quando aveva appena ventitré anni, simulando un’invasione marziana tratta da La guerra dei mondi di H. G. Wells, fu talmente convincente da scatenare il panico degli ascoltatori lungo tutta la costa atlantica. Grazie alla notorietà derivatagli da questa eccezionale performance, poté girare il suo primo film, Quarto potere, terminato nel 1941, un’opera che ha rivoluzionato la struttura del film per la tecnica e per lo stile narrativo, introducendo un uso inedito del piano-sequenza, del taglio delle inquadrature e del “gioco” della profondità di campo, con angoli visuali deformati dalle riprese dall’alto o dal basso e con insistiti primi piani degli interpreti, in cui, attraverso la parabola di un magnate monopolista dell’informazione, Charles Foster Kane, si evidenziano i vizi e le storture del potere, dominato dal narcisismo superomistico e dal feticismo distruttivo del denaro. Era un capolavoro, ma quando uscì non ebbe successo, il giudizio dei critici apparve diviso ma, soprattutto, sconcertò i finanziatori del film, da cui ebbe inizio il persistente contrasto di Welles con la produzione hollywoodiana.
Quarto potere
Nel 1942 lavorò alla gestazione di Terrore sul Mar Nero, un film interpretato dal suo amico Joseph Cotten (che collaborò con lui alla sceneggiatura), ma la regia venne affidata a N. Foster per l’improvviso disinteresse di Welles. Si dedicò invece alla realizzazione di L’orgoglio degli Amberson, fortemente contrastato dalla produzione che lo costrinse a rimontare il film e ad apportarvi numerosi tagli, tanto che lo stesso regista finì per disinteressarsi del destino dell’opera. Anche il film seguente, Lo straniero, del 1946, venne stravolto dalla produzione, soprattutto nel finale, portando l’autore a disconoscerlo. Il film, come appare ancora oggi, conserva comunque il tocco geniale del regista, laddove restituisce magistralmente l’ambiguità e lo sdoppiamento psichico di un ex criminale nazista che è riuscito a ricostruirsi l’esistenza d’un uomo ammodo e stimato, trovando anche l’amore d’una donna, ma che viene assalito dalla frenesia di uccidere allorché la sua nuova vita appare minacciata dal sopraggiungere d’un ex compagno di crimini e d’un investigatore che, sulle tracce del suo vecchio compagno, potrebbe smascherarlo.
Lo straniero
La donna di Shanghai
 Finalmente, nel 1948, Welles riesce a girare un film perfettamente compiuto, denso di intuizioni geniali e non privo di riferimenti autobiografici. E’ La signora di Shanghai, con Rita Hayworth, sua moglie e diva allora assai celebrata, la cui presenza gli garantì, forse, la benevolenza dei produttori, ma con la quale il regista era in procinto di divorziare, tant’è vero che alla bellissima attrice dalla folta chioma color rame, qui con un’inedita pettinatura bionda che ne sminuisce un poco il fascino, affidò la parte d’una dark lady restituita a tinte fosche nella storia d’un marinaio interpretato dallo stesso Welles, raggirato dal marito zoppo della donna ma anche da lei, in un ambiguo gioco delle parti che vorrebbe coinvolgerlo in un omicidio dopo averlo assunto quale capitano dello yacht dei due coniugi per una crociera in mare: omicidio del marito voluto dalla donna, di quello della moglie voluto dall’uomo. Il marinaio riesce a sottrarsi in tempo al raggiro, soprattutto a quello, più insidioso, della donna, il cui scopo è di irretirlo con la seduzione per essere aiutata a impadronirsi del cospicuo patrimonio del marito. Il film si chiude con la stupenda sequenza della sala degli specchi, dove i due coniugi, riflessi più volte in punti diversi della sala, si sparano ripetutamente con furia ossessiva, trovando entrambi la morte, mentre il marinaio Welles assiste al massacro con cinica e amara ironia. 


La sequenza degli specchi: la signora, colpita, muore davanti al marinaio
Nello stesso anno gira Macbeth, uno dei capolavori shakespeariani che aveva già messo in scena a teatro, in cui enfatizza le atmosfere cupe accentuando il contrasto tra il bianco e nero e utilizzando lenti deformanti in funzione scenografica. Il film ha un carattere fortemente espressionista, con un montaggio contrappuntistico che suggerisce più piani d’azione paralleli, un’assoluta novità stilistica che spiazza la critica e che decreta il suo fallimento commerciale. Da questo momento, i produttori di Hollywood non scommetteranno più un dollaro su Orson Welles ed egli dovrà combattere per il resto della sua vita con i problemi della produzione.
Macbeth
Ha in serbo la realizzazione d’un altro progetto shakespeariano, Otello, ma per finanziarlo si impegna in quel tour de force di recitazione in film d’altri autori a cui dovrà sottoporsi sempre più spesso. Girerà il suo film nelle pause che gli consentono il lavoro da attore, in un continuo spostamento dell’azione che ambienterà via via in Marocco, a Roma, a Perugia, a Viterbo e a Venezia. Solo nel 1952 Othello è finito, giusto in tempo per essere proiettato al festival di Cannes e conquistare il premio per il miglior film. Finalmente un riconoscimento ufficiale che il regista statunitense, però, ottiene in Europa, più ricettiva, forse, alle novità del suo cinema di quanto avvenga in patria. Infatti, ancora una volta, Welles stupisce per le sue innovazioni tecniche, soprattutto per il montaggio che lo accosta al miglior Ejzenstejn, il regista russo autore di Ivan il terribile la cui lezione estetica appare nel film di Wells attualizzata e rivisitata in potenza espressiva. Già nel Macbeth si avvertiva l’eco dell’espressionismo ejzeinstejniano, ma in Othello assume una cifra visionaria e apocalittica, riassunta nella scena del funerale che apre e chiude il film con una lunga teoria di figure in controluce che scortano i feretri di Otello e Desdemona al canto ieratico e potente del Dies Irae.
Otello
Passeranno tre anni prima che Welles riesca a realizzare un nuovo film, Rapporto confidenziale (ma il titolo originale è Mister Arkadin), che si configura come una crudele allegoria del potere. Il rapporto confidenziale è quello che dovrà redigere per Arkadin (un magnate della finanza con un passato da occultare, poiché il suo ingente patrimonio deriva da quella che una volta si chiamava tratta delle bianche) un giornalistucolo di nome Van Stratten, chiamato a svolgere un’inchiesta riservata per conto del finanziere che denuncia un fastidioso blocco di memoria. In realtà lo scopo dell’inchiesta è quello di portare il finto smemorato sulle tracce di coloro che lo hanno fiancheggiato nei suoi traffici per poterli eliminare. Van Stratten, però, davanti ai cadaveri che costellano il procedere della sua indagine, scopre il vero scopo del suo incarico e, prima di eclissarsi, svela alla figlia di Arkadin che razza di individuo sia il padre. Costui, non sopportando che la figlia abbia saputo del suo losco passato, sale sul proprio aereo personale per portarlo a schiantarsi al suolo. Ma il corpo dell’uomo non viene ritrovato tra i resti dell’aereo. E’ morto davvero o ha solo voluto farlo credere? Welles lascia l’interrogativo irrisolto, come a suggerire che per quel tipo d’uomo che ha messo in cima a tutto il potere e la ricchezza, valori per i quali si è arrogato il diritto di porsi al di là del bene e del male, non può bastare la perdita dell’amore d’una figlia per convincerlo a sparire di scena definitivamente. 
Rapporto confidenziale
L'infernale Quinlan
La figura di Arkadin, così come la interpreta lo stesso Welles, ha qualcosa di demoniaco e di magnetico. Spesso inquadrato dal basso, giganteggia su una galleria di comprimari grotteschi in un’aura di dispotismo carico di crudeltà e doppiezza. Va sottolineata, a questo punto, un’altra dote straordinaria di Welles: quella di saper incarnare anche fisicamente il tipo di personaggio che interpreta. Già nel Macbeth il suo volto appare quasi irriconoscibile nell’aria allucinata e schizofrenica con cui lo caratterizza; in Arkadin assume fattezze quasi diaboliche; ma l’effetto più sorprendente lo ottiene nel film che realizzerà dopo Rapporto Confidenziale, quell’Infernale Quinlan dove, interpretando la figura del poliziotto corrotto che rappresenta una metafora nichilistica del potere degenerato, sfrutta addirittura la sua crescente tendenza ad ingrassare per accentuare i connotati laidi e ripugnanti del personaggio, pronto a commettere ogni bassezza pur di esercitare la sua volontà di potenza. Il film, girato nel 1958, è un altro capolavoro, dove, tra l’altro, si assiste ad ulteriori innovazioni tecniche, come i primi tre minuti d’apertura girati senza tagli, con un unico piano-sequenza in cui viene presentato l’antefatto della vicenda (la sistemazione della dinamite in un’auto destinata ad esplodere) e tutti i personaggi principali del film; un espediente tecnico, questo, divenuto un paradigma del cinema moderno ma che nessuno ha saputo ripetere con la stessa maestria di Welles.
Successivamente, tra tentativi abortiti e incompiuti, tra cui il Don Chisciotte che prometteva d’essere un ennesimo capolavoro e che resterà forse il rimpianto più grande del regista, Welles traduce per lo schermo una delle opere cruciali della letteratura del Novecento, Il processo di Kafka. Il film, realizzato nel 1962, mette in rilievo il lato assurdo e crudele della macchina del potere attraverso un’allucinante sequenza di situazioni paradossali e angoscianti. E’ un’opera claustrofobica, fortemente inquietante, che trasmette un senso continuo di allarme e timore. Qui, forse, Welles calca la mano più del dovuto, al punto da suscitare un sospetto di formalismo. Ciò nonostante il film porta in ogni caso il sigillo del genio, e molte sequenze restano memorabili. 
Il processo
Tutto il contrario avviene nel film successivo, Falstaff, girato da Welles ben quattro anni dopo, nel 1966. Falstaff è una sorta di divertissement condotto su un tono brioso e buffonesco, al centro del quale agisce il personaggio di Falstaff, principe del lazzo e della burla, parlatore instancabile non privo di raffinatezze verbali che riassume, in chiave clownesca, il mondo di Shakespeare, vecchia e tenace passione di Orson Welles. Qui, contrariamente ad altri film, Welles fa della sua grassezza un motivo di simpatia e gaiezza, dietro cui, però, l’osservatore attento intuisce una sfumatura di malinconia, forse dettata dalla consapevolezza della fine della giovinezza e dello spettro ormai incombente della vecchiaia.
Falstaff
Resta da parlare dell’ultima opera che, dopo ulteriori tentativi e fallimenti intercorsi, Welles riuscì a girare, F come Falso, ormai nel 1974. Il film è una sorta di riflessione sull’arte e la vita, dove i confini tra vero e falso si intersecano e si annullano a vicenda. Welles, sia pure in tono leggero, ci avverte che l’arte è finzione, ma il cinema lo è più d’ogni altra forma. E il regista non è altro che un illusionista che compie dei giochi di prestigio davanti ai quali gli spettatori spalancano gli occhi come fanciulli incantati. Questa sarà l’ultima opera portata a compimento da Welles. Non riuscirà a realizzare altro, a parte un documentario, Filming Othello, costruito con materiale riportato durante le riprese del film del 1952. Morirà nel 1978 mentre era intento a scrivere l’ennesima sceneggiatura di un film che non potrà realizzare. 
F come Falso



Dionisio di Francescantonio 

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