domenica 20 gennaio 2013



Con ogni probabilità la definizione pop art fu coniata in Inghilterra, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, da Lawrence Alloway, un critico d’arte autore di molte recensioni che, più tardi, troviamo a New York fortemente impegnato nel lanciare giovani “artisti” pop. Già il pur facile accostamento dell’arte all’aggettivo popolare (pop infatti allude in qualche modo al vocabolo popolare) dovrebbe indurci a qualche utile riflessione. Potrebbe trattarsi dell’espressione di soggetti rozzi e privi di ingegno appartenenti alle classi meno abbienti, oppure dell’arte prediletta dal popolo. Ma, in questo caso, non si capirebbe come mai proprio il popolo per lungo tempo fu la classe sociale più ostile e diffidente verso l’esposizione in spazi imponenti e spesso prestigiosi di bidoni di spazzatura firmati, tubi serpentinati al neon e immagini seriali di nessun significato. In realtà si tratta della presunta arte che un piccolo numero di personaggi facenti capo ad una potente setta  capace di condizionare il pensiero e quindi il comportamento umano in tutti i campi ha destinato al popolo. A tutto il popolo. Infatti, ancor più degli equivoci ascrivibili all’informale, all’astratto e al concettuale, i bidoni di spazzatura, i tubi al neon e le immagini seriali, ben lungi dall’esprimere, come pretenderebbero schiere di entusiastici recensori, una “critica alla società dei consumi”, hanno l’unico scopo di confondere e deprimere la percezione estetica collettiva e fanno parte della stessa tecnica usata in tutti gli altri settori da chi tende ad acquisire il potere demolendo i fondamenti della nostra società, e trasformando le popolazioni in masse di bruti facilmente manipolabili. Un percorso all’indietro che, per l’appunto, diventa possibile solo nel momento in cui viene meno l’ordine che discende dall’esistenza delle categorie del bene e del male, del bello e del brutto, del sano e del patologico a cui per secoli e secoli la nostra civiltà aveva sempre fatto riferimento. E, nel contempo, costituiscono il mezzo con cui i furbi e gli arroganti, ben inseriti nel sistema, misurano la loro capacità di catturare con ogni mezzo l’attenzione del prossimo o di provocarne una qualsiasi  reazione, non importa se di disorientamento o di rifiuto, per ottenere, grazie all’alta visibilità conseguente, grossi introiti economici in cambio di poco o niente: le “opere” uniche vendute ai borghesi danarosi, inebetiti dai cataloghi che valorizzano il pattume con parole incomprensibili e a tutti gli altri, che si portano a casa la paccottiglia riprodotta in serie a medio o a basso prezzo, dalla quale, grazie alla facilità di riproduzione in grandi quantità che consente la tecnica moderna, si possono ugualmente ricavare cifre stratosferiche.
Insensato, come ho già detto, sarebbe dedicare altro tempo prezioso alla memorizzazione e all’analisi della miriade di nomi e di “opere” di tanti pretesi artisti del pop. Per il nostro scopo, che resta quello di porre fine a una delle tante imposture e quindi propiziare l’avvento di una nuova stagione, basterà la divulgazione della biografia di Andy Warhol, quella vera, non inventata da biografi falsi o prezzolati. In questa sede possiamo solo mettere in evidenza il collegamento che esiste tra l’irrompere sulla scena di questo modesto grafico pubblicitario, bilioso e paranoico, e il nichilismo pratico oggi dilagante in cui hanno finito per sciogliersi tutte le ideologie del Novecento. Potendo disporre, finalmente, di adeguati strumenti di analisi, risulterà evidente a chiunque come l’ascesa del  figlio di emigranti slovacchi a cui continuano a rifarsi le torme di imbrattatori che ancora ci tormentano con i loro ignobili scarabocchi, non fu dovuta né a un inesistente talento ribelle né alla forza di volontà di una madre frustata e ambiziosa, ma all’occhio acuto di chi già negli anni Cinquanta cercava il matto giusto per promuovere la pazzia collettiva e l’uso generalizzato della droga, consapevole di quanto sia facile esercitare tutto il potere su un popolo debole di mente e incapace di scegliere, e sul quale si può riversare qualunque porcheria.  Ed è proprio alla necessità di perpetuare questo genere di potere totale e perverso che va ricondotta una circostanza che dovrebbe invece far riflettere: all’immediata e praticamente universale riconoscibilità del sembiante di Andy Warhol e di molte delle “opere” a lui attribuite, corrisponde, come più sopra è stato detto, una conoscenza assai approssimativa per non dire assolutamente vaga di quella che fu in realtà la sua vita, proprio come se qualcuno avesse provveduto a far silenziare i non pochi testimoni oculari delle innumerevoli ignominie ascrivibili al più falso e ingannevole dei miti. Per esempio chi, tra i tanti cultori del bislacco personaggio, si è preso la briga di raccontarci quanto avveniva sotto la sua esclusiva regia nella mitica Factory da lui fondata? 


Arrampicatore sociale, abile come pochi, Andy era riuscito in giovane età a emergere dall’anonimato diventando l’amante di Truman Capote, il  più famoso scrittore omosessuale statunitense dei primi anni Cinquanta: una formula abbastanza scontata per raggiungere la notorietà passando dalla porta di servizio che egli, pubblicitario per formazione, una volta diventato famoso, decise di vendere alle torme di giovani che sgomitavano per godere dei benefici che immaginavano di poter ottenere entrando nella sua orbita. Egli, infatti, prometteva a tutti “un quarto d’ora di celebrità” in cambio di un pegno che si riservava di esigere  e che quasi sempre consisteva nello sfruttamento del loro corpo o del loro talento. Ma siccome l’avidità e la mancanza di scrupoli, in definitiva, non erano i peggiori elementi della sua natura assolutamente crudele e negativa, spesso il prezzo per non uscire dal cerchio di luce che egli era in grado di accordare saliva a dismisura e molti dei giovani irretiti dalla sua algida personalità e ancor più dalle droghe che nella Factory non mancavano mai, finivano per perdere la salute fisica assieme a quella mentale e, non di rado, anche la loro stessa vita. Mentre lui, cinico e perfettamente lucido (in quanto non personalmente dedito alla droga) era sempre lì,  con in mano l’immancabile cinepresa,  per filmarne l’abbrutimento derivante dalla decadenza fisica, le indicibili umiliazioni e perfino il momento estremo del trapasso che a volte avveniva a seguito di sfinimento fisico per assunzione di droghe e altro genere di veleni o per via del suicidio, a cui egli stesso aveva indotto il disgraziato di turno. Perchè la morte e il dolore degli altri lo affascinavano, quietavano, almeno per un po’, la sua invidia congenita in quanto lo risarcivano di quell’aspetto cimiteriale che la natura gli aveva dato e che risultava a lui stesso sgradevole.
 
 




Cominciare a far luce su tante realtà occultate è il presupposto indispensabile per far saltare il   paraocchi che ancora oggi impedisce ai più di scorgere l’abisso verso il quale sono tuttora orientate quasi tutte le espressioni della nostra vita. Finalmente liberato il campo dai condizionamenti “anti-tutto” e dai pregiudizi verso le rare voci che nel corso del tempo hanno cercato, sempre invano, di indicare i luoghi del pensiero in cui erano state prefigurate tutte le tappe di questo lungo cammino di demolizione di tutte le basi della crescita individuale e di una convivenza collettiva impostata sulla ricerca dell’armonia, sarà finalmente possibile capire quanto, in realtà, sarebbe stato facile evitare le infinite e multiformi trappole mortali disseminate in ogni angolo e lungo tutte le strade percorse da almeno due o tre delle ultime generazioni.



Restando nel campo dell’arte e a mero titolo di esempio, basterà porre attenzione al significato letterale dei punti programmatici del manifesto “dada”. Nato a Zurigo negli anni dieci del Novecento, il dadaismo è la corrente di pensiero a cui, a pieno titolo, può essere ricondotta la pop art e il fenomeno Andy Warhol. Nulla può essere più chiaro delle parole d’ordine contenute in questo proclama la cui attuazione, come appare evidente, al di là della pretesa (in verità già di per sé insensata) di rifiutare la tradizione in tutti i campi, a partire da quello artistico, non avrebbe portato alla libertà di espressione bensì all’ospedale psichiatrico. Che in seguito e sicuramente non  per caso è stato abolito. Recita il manifesto:

1) Per lanciare un manifesto bisogna volere A,B,C; scagliare invettive contro 1,2,3; eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffondere grandi e piccole a,b,c;

2) Firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non plus ultra, sostenendo che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio;

3) Con il manifesto dada non si persegue nulla; chi scrive il manifesto è per principio contro i manifesti. E’ anche contro tutti i principi. Lo scopo è quello che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie in un unico refrigerante respiro;

4) Si è in favore della contraddizione continua;

5) Dada non significa nulla;

6) Non si ritiene di dover dare spiegazioni.

 
















Utile fermare l’attenzione sui primi due punti. Essi delineano chiaramente il modello di comportamento abituale con cui ancora oggi  si tenta di ridurre al silenzio coloro che propongono una chiave di lettura diversa rispetto a quella corrente o offrono un pensiero finalmente rigenerativo.

Articolo di Miriam Pastorino


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