Resoconto d’un viaggio d’istruzione in Italia ma in particolare a Venezia d’un giovane austriaco avvenuto nel 1778, un itinerario che appare, più che un movimento nello spazio, un percorso umano e spirituale corrispondente al tentativo di conoscere il sé specchiandosi nell’altro, l’Andrea sembra inserirsi nel genere del romanzo di formazione o di educazione sentimentale di cui nella letteratura tedesca si hanno esempi illustri, come il Vilhelm Meister di Goethe e L’Enrico di Ofterdingen di Novalis, due autori, peraltro, a cui Hofmannsthal non smise mai di far riferimento perché entrambi interpreti di due tendenze ch’egli sentiva egualmente forti in sé: Goethe quale campione di un’arte tutta rivolta al mondo sensibile e improntata a grande saggezza ed equilibrio; Novalis quale esponente d’una emotività piuttosto incline al mondo soprasensibile, al notturno e all’irrazionale.
Due inclinazioni contrastanti che, probabilmente, Hofmannsthal non riuscì mai a ricomporre in una superiore unità e che ci aiutano a capire il perché delle crisi ricorrenti, umane e artistiche, a cui egli andò incontro nel suo percorso d’autore, un percorso che trovò espressione, certo per individuare la voce più adeguata al mutare degli stati d’animo, nelle forme più varie, dal verso al teatro drammatico, dalla narrativa alla saggistica e dalla commedia semiseria o buffa al melodramma lirico, quest’ultimo estrinsecatosi in una lunga collaborazione come librettista col compositore Richard Strauss. Ma il motivo di fondo di tali crisi rimase sempre lo stesso: la responsabilità dell’artista nei confronti del mondo, la necessità che l’opera, oltre a prefiggersi la forma d’espressione più alta, rappresenti un modo di porgersi all’altro per intendersi sul senso dell’esistenza, per comunicare insieme in nome d’una produttiva unità d’intenti volta al raggiungimento d’una superiore armonia del vivere: scopo che forse Hofmannsthal non fu mai sicuro di ottenere.
Poiché egli si era presentato fin da ragazzo alla società letteraria viennese come un poeta precocemente maturo, capace di sedurre e incantare con la raffinata eleganza dei suoi versi, restando per questo intrappolato in una torre d’avorio d’estetismo aristocratico ancor prima d’aver fatta la sua esperienza del mondo, dovette, per tutta la vita, lottare per liberarsi dell’etichetta di artefice di un’arte per l’arte fine a se stessa, che gli negava la possibilità d’un fertile rapporto con gli uomini. La sua opera narrativa, indubbiamente la voce sua più sincera, testimonia il sofferto processo della sua liberazione dalla solitudine paralizzante imposta al genio assiso suo malgrado sul piedistallo per la ricerca d’un contatto autentico con gli altri. Basterà citare il primo racconto e l’ultimo ch’egli portò a compimento quali tappe miliari di questo processo, vale a dire il suo punto di partenza e quello d’arrivo. Nel primo, scritto a soli 21 anni, La Novella della 672a notte, dove nel giovane figlio del mercante che abbandona controvoglia la sua dorata solitudine circondata da cose belle e preziose per conoscere la realtà d’un mondo sordido e crudele, nel quale incontrerà una morte miserevole, viene descritto proprio il disagio scaturito dal contrasto tra la necessità di rompere l’isolamento e il timore e la repulsione verso un mondo ancora ritenuto insidioso, colmo di sollecitazioni nebulose e di minacce indecifrabili. Invece nell’ultimo, La donna senz’ombra, sorta di fiaba o meglio racconto mitico dove la luminosa figlia degli spiriti che per l’acquisto dell’ombra equivalente all’ottenimento della dimensione umana (la sola che, per la donna, può consentire la maternità) deve lasciare il palazzo nel quale l’amore dell’imperatore la tiene segregata e recarsi tra gli umani per servirli, vincendo la ripugnanza verso le loro brutture e deformazioni, si rappresenta la necessità di porsi al servizio dell’umanità per votarsi a un’opera di creazione feconda ma anche il raggiungimento di tale obiettivo, simboleggiato dallo scaturire dell’ombra dal corpo della creatura celeste grazie alla quale ella potrà generare un figlio alla tenerezza dello sposo. In mezzo a queste due opere, superbi esempi, per inciso, di perfetta fusione tra sublimità dello stile e pregnanza del contenuto, e ad altre minori e occasionali, si colloca l’Andrea o i ricongiunti, non fiaba come le due appena descritte ma opera d’impianto realistico che vorrebbe documentare appunto un processo di superamento di imperfezioni e insufficienze umane per il raggiungimento d’una dimensione di piena e matura consapevolezza. Anche nello stile l’Andrea appare un’altra cosa. Qui la narrazione non è contrassegnata dalla raffinata écriture artiste (come si definiva a quel tempo il bello scrivere) d’uno stilista che già a vent’anni e tanto più in età matura sapeva usare la scrittura con consumata maestria, ma appare più spontanea, appunto più realistica, improntata com’è a un piglio veloce, quasi stendhaliano nel rapido affastellarsi e sovrapporsi degli avvenimenti. Così assistiamo all’approdo di Andrea nella Venezia che fuoriesce dalle brume notturne e all’apparizione del gentiluomo con maschera sul viso ma seminudo sotto il mantello in cui è avvolto (una stranezza dovuta, come si saprà più tardi, a un’inveterata passione dell’uomo per il gioco che lo riduce spesso alla perdita degli abiti), il quale si mostra pronto ad accompagnare il giovane straniero presso un alloggio in casa d’una famiglia nobile disposta ad ospitare viaggiatori per mercede perché languente in cattive condizioni. Per la stessa ragione la giovanissima e bella Zustina, figlia dei padroni, si è posta – come apprenderà con turbato stupore il giovane viennese – quale posta d’una lotteria a cui parteciperanno solo scelti gentiluomini. Poi c’è il ricordo mortificante del soggiorno di Andrea nella casa dei Finazzer, avvenuto prima dell’arrivo a Venezia. Là si è svolto il breve idillio con Romana Finazzer, la ragazza dall’animo candido di bimba che gli ha svelato senza reticenze l’attrazione che prova per lui, un idillio che abortisce prim’ancora di svilupparsi in qualcos’altro a causa del comportamento di Gotthilft, il servo ribaldo presentatosi ad Andrea per offrirgli i suoi servigi ma che lo porta ad acquistare un cavallo rubato alla stessa famiglia presso cui ha trovato ospitalità e che fuggirà dopo aver picchiato e legato una domestica indotta a farsi sua complice nel rubare altre cose. A quel gaglioffo che l’ha messo in cattiva luce presso i Finazzer, i genitori di Romana buoni nonostante tutto con lui e pronti ad aiutarlo per riprendere il viaggio verso Venezia, Andrea è costretto suo malgrado a sentirsi affine per quel che di malvagio sente in sé e che l’ha portato (com’egli rammenta con contrizione) a infierire crudelmente e perfino a uccidere due cani avuti nella sua adolescenza. Poi, nella scena successiva, trovandosi a vagare nelle calli di Venezia, il giovane andrà incontro a quella singolare e surreale sequenza dell’apparizione di due donne apparentemente uguali d’aspetto e abbigliamento, forse due facce d’una stessa femminilità ambigua e inafferrabile, che gli compaiono e gli sfuggono davanti agli occhi un momento prima come una penitente straordinariamente dolorosa all’interno d’una chiesa e immediatamente dopo quale una demoniaca furia che si spenzola appesa per i piedi a una pergola per spaventarlo e irriderlo a quel modo selvaggio, per poi sparire entrambe misteriosamente così come gli erano apparse. Quindi si succedono gli incontri con altri personaggi, ciascuno col suo mistero e il suo fascino, come il Cavalier Sacramozo e il Cavaliere di Malta, entrambi portatori di esperienze e saggezze a cui il giovane viennese vorrebbe attingere nel suo desiderio di conoscere se stesso attraverso il rapporto con coloro che la sorte gli fa incontrare ad ogni passo. Assistiamo insomma, sia nella parte stesa del racconto, sia in quella che s’intuisce dagli appunti per il seguito rimasto solo in abbozzo o meglio in intenzione irrisolta, a un crescendo di situazioni che percorrono un’ampia gamma dei misteri della psiche, dell’eros, del corpo e dello spirito umano nei loro risvolti di bene e di male o di luci e di ombre.
Dunque un’opera, quest’Andrea o i ricongiunti che, come La Donna senz’ombra, aspirerebbe alla ricongiunzione delle componenti, se vogliamo chiamarle così, chiare e oscure dell’essere per il conseguimento di quella compiutezza umana che può scaturire solo dal porre la propria opera al servizio dell’umanità, ma che, più realisticamente della fiaba (e forse perché più legata alla condizione personale di Hofmannsthal, alla sua insoddisfazione di sé), non riesce a definirsi, resta solo nelle intenzioni, come testimonia il fatto che l’autore la lasci incompiuta.
Dionisio di Francescantonio
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