giovedì 31 gennaio 2013

IL CINEMA DI ORSON WELLES





Quarto potere
Eppure, nonostante le limitazioni e i condizionamenti incontrati, Welles ha realizzato alcuni dei film più memorabili della storia del cinema, pieni di  intuizioni geniali, di innovazioni tecniche nel linguaggio filmico, con un uso inedito della cinepresa e degli obiettivi in funzione espressiva (fu uno dei primi cineasti ad usare il grandangolare) che gli permetteva di ottenere spesso una resa drammatica di potenza quasi ipnotica. La sua genialità si svelò precocemente quando, ancora ragazzo, fu scritturato come attore nelle più importanti compagnie di teatro di prosa di New York e di Chicago, giungendo presto a realizzare proprie regie di opere di Shakespeare. Lavorò anche alla radio, in trasmissioni che rivelarono la sua straordinaria capacità d’impadronirsi di questo strumento mediatico per esprimere le sue grandi doti drammatiche, al punto che, il 30 ottobre 1938, quando aveva appena ventitré anni, simulando un’invasione marziana tratta da La guerra dei mondi di H. G. Wells, fu talmente convincente da scatenare il panico degli ascoltatori lungo tutta la costa atlantica. Grazie alla notorietà derivatagli da questa eccezionale performance, poté girare il suo primo film, Quarto potere, terminato nel 1941, un’opera che ha rivoluzionato la struttura del film per la tecnica e per lo stile narrativo, introducendo un uso inedito del piano-sequenza, del taglio delle inquadrature e del “gioco” della profondità di campo, con angoli visuali deformati dalle riprese dall’alto o dal basso e con insistiti primi piani degli interpreti, in cui, attraverso la parabola di un magnate monopolista dell’informazione, Charles Foster Kane, si evidenziano i vizi e le storture del potere, dominato dal narcisismo superomistico e dal feticismo distruttivo del denaro. Era un capolavoro, ma quando uscì non ebbe successo, il giudizio dei critici apparve diviso ma, soprattutto, sconcertò i finanziatori del film, da cui ebbe inizio il persistente contrasto di Welles con la produzione hollywoodiana.
Quarto potere
Nel 1942 lavorò alla gestazione di Terrore sul Mar Nero, un film interpretato dal suo amico Joseph Cotten (che collaborò con lui alla sceneggiatura), ma la regia venne affidata a N. Foster per l’improvviso disinteresse di Welles. Si dedicò invece alla realizzazione di L’orgoglio degli Amberson, fortemente contrastato dalla produzione che lo costrinse a rimontare il film e ad apportarvi numerosi tagli, tanto che lo stesso regista finì per disinteressarsi del destino dell’opera. Anche il film seguente, Lo straniero, del 1946, venne stravolto dalla produzione, soprattutto nel finale, portando l’autore a disconoscerlo. Il film, come appare ancora oggi, conserva comunque il tocco geniale del regista, laddove restituisce magistralmente l’ambiguità e lo sdoppiamento psichico di un ex criminale nazista che è riuscito a ricostruirsi l’esistenza d’un uomo ammodo e stimato, trovando anche l’amore d’una donna, ma che viene assalito dalla frenesia di uccidere allorché la sua nuova vita appare minacciata dal sopraggiungere d’un ex compagno di crimini e d’un investigatore che, sulle tracce del suo vecchio compagno, potrebbe smascherarlo.
Lo straniero
La donna di Shanghai
 Finalmente, nel 1948, Welles riesce a girare un film perfettamente compiuto, denso di intuizioni geniali e non privo di riferimenti autobiografici. E’ La signora di Shanghai, con Rita Hayworth, sua moglie e diva allora assai celebrata, la cui presenza gli garantì, forse, la benevolenza dei produttori, ma con la quale il regista era in procinto di divorziare, tant’è vero che alla bellissima attrice dalla folta chioma color rame, qui con un’inedita pettinatura bionda che ne sminuisce un poco il fascino, affidò la parte d’una dark lady restituita a tinte fosche nella storia d’un marinaio interpretato dallo stesso Welles, raggirato dal marito zoppo della donna ma anche da lei, in un ambiguo gioco delle parti che vorrebbe coinvolgerlo in un omicidio dopo averlo assunto quale capitano dello yacht dei due coniugi per una crociera in mare: omicidio del marito voluto dalla donna, di quello della moglie voluto dall’uomo. Il marinaio riesce a sottrarsi in tempo al raggiro, soprattutto a quello, più insidioso, della donna, il cui scopo è di irretirlo con la seduzione per essere aiutata a impadronirsi del cospicuo patrimonio del marito. Il film si chiude con la stupenda sequenza della sala degli specchi, dove i due coniugi, riflessi più volte in punti diversi della sala, si sparano ripetutamente con furia ossessiva, trovando entrambi la morte, mentre il marinaio Welles assiste al massacro con cinica e amara ironia. 


La sequenza degli specchi: la signora, colpita, muore davanti al marinaio
Nello stesso anno gira Macbeth, uno dei capolavori shakespeariani che aveva già messo in scena a teatro, in cui enfatizza le atmosfere cupe accentuando il contrasto tra il bianco e nero e utilizzando lenti deformanti in funzione scenografica. Il film ha un carattere fortemente espressionista, con un montaggio contrappuntistico che suggerisce più piani d’azione paralleli, un’assoluta novità stilistica che spiazza la critica e che decreta il suo fallimento commerciale. Da questo momento, i produttori di Hollywood non scommetteranno più un dollaro su Orson Welles ed egli dovrà combattere per il resto della sua vita con i problemi della produzione.
Macbeth
Ha in serbo la realizzazione d’un altro progetto shakespeariano, Otello, ma per finanziarlo si impegna in quel tour de force di recitazione in film d’altri autori a cui dovrà sottoporsi sempre più spesso. Girerà il suo film nelle pause che gli consentono il lavoro da attore, in un continuo spostamento dell’azione che ambienterà via via in Marocco, a Roma, a Perugia, a Viterbo e a Venezia. Solo nel 1952 Othello è finito, giusto in tempo per essere proiettato al festival di Cannes e conquistare il premio per il miglior film. Finalmente un riconoscimento ufficiale che il regista statunitense, però, ottiene in Europa, più ricettiva, forse, alle novità del suo cinema di quanto avvenga in patria. Infatti, ancora una volta, Welles stupisce per le sue innovazioni tecniche, soprattutto per il montaggio che lo accosta al miglior Ejzenstejn, il regista russo autore di Ivan il terribile la cui lezione estetica appare nel film di Wells attualizzata e rivisitata in potenza espressiva. Già nel Macbeth si avvertiva l’eco dell’espressionismo ejzeinstejniano, ma in Othello assume una cifra visionaria e apocalittica, riassunta nella scena del funerale che apre e chiude il film con una lunga teoria di figure in controluce che scortano i feretri di Otello e Desdemona al canto ieratico e potente del Dies Irae.
Otello
Passeranno tre anni prima che Welles riesca a realizzare un nuovo film, Rapporto confidenziale (ma il titolo originale è Mister Arkadin), che si configura come una crudele allegoria del potere. Il rapporto confidenziale è quello che dovrà redigere per Arkadin (un magnate della finanza con un passato da occultare, poiché il suo ingente patrimonio deriva da quella che una volta si chiamava tratta delle bianche) un giornalistucolo di nome Van Stratten, chiamato a svolgere un’inchiesta riservata per conto del finanziere che denuncia un fastidioso blocco di memoria. In realtà lo scopo dell’inchiesta è quello di portare il finto smemorato sulle tracce di coloro che lo hanno fiancheggiato nei suoi traffici per poterli eliminare. Van Stratten, però, davanti ai cadaveri che costellano il procedere della sua indagine, scopre il vero scopo del suo incarico e, prima di eclissarsi, svela alla figlia di Arkadin che razza di individuo sia il padre. Costui, non sopportando che la figlia abbia saputo del suo losco passato, sale sul proprio aereo personale per portarlo a schiantarsi al suolo. Ma il corpo dell’uomo non viene ritrovato tra i resti dell’aereo. E’ morto davvero o ha solo voluto farlo credere? Welles lascia l’interrogativo irrisolto, come a suggerire che per quel tipo d’uomo che ha messo in cima a tutto il potere e la ricchezza, valori per i quali si è arrogato il diritto di porsi al di là del bene e del male, non può bastare la perdita dell’amore d’una figlia per convincerlo a sparire di scena definitivamente. 
Rapporto confidenziale
L'infernale Quinlan
La figura di Arkadin, così come la interpreta lo stesso Welles, ha qualcosa di demoniaco e di magnetico. Spesso inquadrato dal basso, giganteggia su una galleria di comprimari grotteschi in un’aura di dispotismo carico di crudeltà e doppiezza. Va sottolineata, a questo punto, un’altra dote straordinaria di Welles: quella di saper incarnare anche fisicamente il tipo di personaggio che interpreta. Già nel Macbeth il suo volto appare quasi irriconoscibile nell’aria allucinata e schizofrenica con cui lo caratterizza; in Arkadin assume fattezze quasi diaboliche; ma l’effetto più sorprendente lo ottiene nel film che realizzerà dopo Rapporto Confidenziale, quell’Infernale Quinlan dove, interpretando la figura del poliziotto corrotto che rappresenta una metafora nichilistica del potere degenerato, sfrutta addirittura la sua crescente tendenza ad ingrassare per accentuare i connotati laidi e ripugnanti del personaggio, pronto a commettere ogni bassezza pur di esercitare la sua volontà di potenza. Il film, girato nel 1958, è un altro capolavoro, dove, tra l’altro, si assiste ad ulteriori innovazioni tecniche, come i primi tre minuti d’apertura girati senza tagli, con un unico piano-sequenza in cui viene presentato l’antefatto della vicenda (la sistemazione della dinamite in un’auto destinata ad esplodere) e tutti i personaggi principali del film; un espediente tecnico, questo, divenuto un paradigma del cinema moderno ma che nessuno ha saputo ripetere con la stessa maestria di Welles.
Successivamente, tra tentativi abortiti e incompiuti, tra cui il Don Chisciotte che prometteva d’essere un ennesimo capolavoro e che resterà forse il rimpianto più grande del regista, Welles traduce per lo schermo una delle opere cruciali della letteratura del Novecento, Il processo di Kafka. Il film, realizzato nel 1962, mette in rilievo il lato assurdo e crudele della macchina del potere attraverso un’allucinante sequenza di situazioni paradossali e angoscianti. E’ un’opera claustrofobica, fortemente inquietante, che trasmette un senso continuo di allarme e timore. Qui, forse, Welles calca la mano più del dovuto, al punto da suscitare un sospetto di formalismo. Ciò nonostante il film porta in ogni caso il sigillo del genio, e molte sequenze restano memorabili. 
Il processo
Tutto il contrario avviene nel film successivo, Falstaff, girato da Welles ben quattro anni dopo, nel 1966. Falstaff è una sorta di divertissement condotto su un tono brioso e buffonesco, al centro del quale agisce il personaggio di Falstaff, principe del lazzo e della burla, parlatore instancabile non privo di raffinatezze verbali che riassume, in chiave clownesca, il mondo di Shakespeare, vecchia e tenace passione di Orson Welles. Qui, contrariamente ad altri film, Welles fa della sua grassezza un motivo di simpatia e gaiezza, dietro cui, però, l’osservatore attento intuisce una sfumatura di malinconia, forse dettata dalla consapevolezza della fine della giovinezza e dello spettro ormai incombente della vecchiaia.
Falstaff
Resta da parlare dell’ultima opera che, dopo ulteriori tentativi e fallimenti intercorsi, Welles riuscì a girare, F come Falso, ormai nel 1974. Il film è una sorta di riflessione sull’arte e la vita, dove i confini tra vero e falso si intersecano e si annullano a vicenda. Welles, sia pure in tono leggero, ci avverte che l’arte è finzione, ma il cinema lo è più d’ogni altra forma. E il regista non è altro che un illusionista che compie dei giochi di prestigio davanti ai quali gli spettatori spalancano gli occhi come fanciulli incantati. Questa sarà l’ultima opera portata a compimento da Welles. Non riuscirà a realizzare altro, a parte un documentario, Filming Othello, costruito con materiale riportato durante le riprese del film del 1952. Morirà nel 1978 mentre era intento a scrivere l’ennesima sceneggiatura di un film che non potrà realizzare. 
F come Falso



Dionisio di Francescantonio 

sabato 26 gennaio 2013

THE MISSING



 La trama è presto delineata. Maggie (Cate Blanchett) vive con le figlie Lily e Dot in un ranch del New Mexico, coadiuvata nei lavori da un bravo ranchero col quale intrattiene una relazione, sia pure con qualche riserva. Un giorno arriva alla fattoria un uomo che sembra un indiano ma che si rivela essere il padre di Maggie, Samuel (Tommy Lee Jones), il quale anni prima ha lasciato la famiglia per andare a vivere con gli Apaches. Maggie non l’ha mai perdonato per quell’abbandono, rifiuta sdegnata il denaro che l’uomo vuole offrirle e lo scaccia dopo averlo accusato della prematura scomparsa della madre, intristita e deperita dopo la sua partenza. Ma quando Lily, la figlia più grande, viene rapita da un gruppo di indiani apache, ex guide dell’esercito che hanno disertato trascinati da uno stregone psicopatico (durante il rapimento il ranchero di Maggie viene ucciso in modo efferato), l'unica persona che può aiutare Maggie a ritrovare la figlia è proprio l'odiato padre. 
 Così Maggie, Samuel e la piccola Dot (che non vuole essere lasciata sola) si lanciano all’inseguimento della banda indiana prima che essa oltrepassi il confine con il Messico, dov’è diretta per cedere Lily e altre ragazze rapite ad alcuni messicani che le comprerebbero per farne delle prostitute. Si tratta di un western che risente, in qualche modo, del clima di precarietà e d’incertezza del nostro tempo e, forse per questo, pur avvalendosi degli elementi classici del genere, ha uno sviluppo narrativo particolare, ponendo al centro della vicenda un dramma di carattere familiare ma caricandolo di elementi da film thriller o addirittura horror, in cui l’azione si svolge nei brutali paesaggi del New Mexico, fra gole e strapiombi minacciosi, frequenti apparizioni di serpenti velenosi, frecce incendiarie, magia nera e falchi messaggeri, su cui pesa un continuo senso di minaccia. E’, insomma, un west sinistro e pauroso, quello rappresentato in questo film, con protagonisti e antagonisti che si aggirano in uno scenario livido e quasi apocalittico, dove sembra non esistere rifugio alcuno e dove la morte incombe ad ogni passo. Alla banda degli indiani rapitori, violenti e crudeli fino all’estremo, fa da contraltare uno squadrone di giacche blu cencioso e cialtrone che i protagonisti incontrano sulla loro strada e dal quale si affrettano a separarsi, sia perché constatano di non poterne ricevere alcun aiuto, sia perché Samuel, col suo aspetto da indiano, ha motivo di temere per la propria incolumità.

Alla fine, grazie all’elemento sorpresa, all’aiuto di un paio di vecchi amici indiani di Samuel fortunosamente incontrati, e a un pizzico di buona sorte, Samuel e Maggie riescono a liberare la ragazza assieme alle altre che la banda di apache disertori vorrebbe vendere ai messicani. Ma durante la fuga, trovato rifugio sulla cima d’una collina, vengono attaccati nottetempo dagli indiani che li hanno inseguiti e, in un momento di lotta concitata, Samuel, per salvare la figlia che sta per essere trucidata dal capo stregone, non può far altro che immolarsi trascinando con sé il truce personaggio in un burrone, dove insieme troveranno la morte. Solo allora, di fronte al sacrificio estremo del padre che ha salvato lei e le due nipoti, la figlia riuscirà a perdonargli l’antico abbandono e a riconciliarsi con lui.

L’elemento di novità del film risiede nell'aver posto al centro della vicenda un punto di vista femminile e soprattutto di madre in un genere dove la donna ha sempre rivestito un ruolo di secondo piano rispetto alla forte e talvolta rude presenza del protagonista maschile, ma anche perché si discosta dal filone più recente, quello politicamente corretto, che mostra gli indiani non più come crudeli selvaggi ma come vittime della persecuzione dei bianchi (l’esempio più saliente che viene in mente è quello rappresentato da Balla coi Lupi di  Kevin Kostner ). 

In questo senso The Missing  appare più neutrale e quindi più convincente: i pellerossa,  ex guide apache che sotto l’autorità dello stregone – o brujo, come viene chiamato in lingua indiana – appaiono, non appena decidono di ribellarsi, per quegli individui brutali che in realtà erano sempre stati; mentre Samuel, anch'egli quasi un indiano, si colloca, insieme ai due uomini della vecchia tribù presso cui ha trascorso buona parte della sua vita, dalla parte giusta, cioè quella delle vittime dei ribelli, la nipote e le altre ragazze, strappandole al triste destino che lo stregone e i suoi uomini avevano loro riservato. In questo quadro il rapporto di Samuel e Maggie è sviluppato con coerenza e sensibilità: l’uomo torna dalla figlia rimpiangendo di averla abbandonata, lei lo rifiuta e non riesce a perdonarlo benché egli non esiti a mettere a repentaglio la sua vita per restituirle la figlia rapita. Fino alla fine la durezza del suo cuore le impedirà di perdonare il padre, ritenendo che ciò ch’egli fa per lei le sia semplicemente dovuto. Solo il sacrificio di Samuel le farà comprendere la sincerità del sentimento che l’ha riportato da lei, e l’abnegazione ch’egli le dimostra nel momento estremo del bisogno porterà Maggie, stavolta, a rimpiangere di non avergli potuto esternare la propria gratitudine. 







domenica 20 gennaio 2013



Con ogni probabilità la definizione pop art fu coniata in Inghilterra, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, da Lawrence Alloway, un critico d’arte autore di molte recensioni che, più tardi, troviamo a New York fortemente impegnato nel lanciare giovani “artisti” pop. Già il pur facile accostamento dell’arte all’aggettivo popolare (pop infatti allude in qualche modo al vocabolo popolare) dovrebbe indurci a qualche utile riflessione. Potrebbe trattarsi dell’espressione di soggetti rozzi e privi di ingegno appartenenti alle classi meno abbienti, oppure dell’arte prediletta dal popolo. Ma, in questo caso, non si capirebbe come mai proprio il popolo per lungo tempo fu la classe sociale più ostile e diffidente verso l’esposizione in spazi imponenti e spesso prestigiosi di bidoni di spazzatura firmati, tubi serpentinati al neon e immagini seriali di nessun significato. In realtà si tratta della presunta arte che un piccolo numero di personaggi facenti capo ad una potente setta  capace di condizionare il pensiero e quindi il comportamento umano in tutti i campi ha destinato al popolo. A tutto il popolo. Infatti, ancor più degli equivoci ascrivibili all’informale, all’astratto e al concettuale, i bidoni di spazzatura, i tubi al neon e le immagini seriali, ben lungi dall’esprimere, come pretenderebbero schiere di entusiastici recensori, una “critica alla società dei consumi”, hanno l’unico scopo di confondere e deprimere la percezione estetica collettiva e fanno parte della stessa tecnica usata in tutti gli altri settori da chi tende ad acquisire il potere demolendo i fondamenti della nostra società, e trasformando le popolazioni in masse di bruti facilmente manipolabili. Un percorso all’indietro che, per l’appunto, diventa possibile solo nel momento in cui viene meno l’ordine che discende dall’esistenza delle categorie del bene e del male, del bello e del brutto, del sano e del patologico a cui per secoli e secoli la nostra civiltà aveva sempre fatto riferimento. E, nel contempo, costituiscono il mezzo con cui i furbi e gli arroganti, ben inseriti nel sistema, misurano la loro capacità di catturare con ogni mezzo l’attenzione del prossimo o di provocarne una qualsiasi  reazione, non importa se di disorientamento o di rifiuto, per ottenere, grazie all’alta visibilità conseguente, grossi introiti economici in cambio di poco o niente: le “opere” uniche vendute ai borghesi danarosi, inebetiti dai cataloghi che valorizzano il pattume con parole incomprensibili e a tutti gli altri, che si portano a casa la paccottiglia riprodotta in serie a medio o a basso prezzo, dalla quale, grazie alla facilità di riproduzione in grandi quantità che consente la tecnica moderna, si possono ugualmente ricavare cifre stratosferiche.
Insensato, come ho già detto, sarebbe dedicare altro tempo prezioso alla memorizzazione e all’analisi della miriade di nomi e di “opere” di tanti pretesi artisti del pop. Per il nostro scopo, che resta quello di porre fine a una delle tante imposture e quindi propiziare l’avvento di una nuova stagione, basterà la divulgazione della biografia di Andy Warhol, quella vera, non inventata da biografi falsi o prezzolati. In questa sede possiamo solo mettere in evidenza il collegamento che esiste tra l’irrompere sulla scena di questo modesto grafico pubblicitario, bilioso e paranoico, e il nichilismo pratico oggi dilagante in cui hanno finito per sciogliersi tutte le ideologie del Novecento. Potendo disporre, finalmente, di adeguati strumenti di analisi, risulterà evidente a chiunque come l’ascesa del  figlio di emigranti slovacchi a cui continuano a rifarsi le torme di imbrattatori che ancora ci tormentano con i loro ignobili scarabocchi, non fu dovuta né a un inesistente talento ribelle né alla forza di volontà di una madre frustata e ambiziosa, ma all’occhio acuto di chi già negli anni Cinquanta cercava il matto giusto per promuovere la pazzia collettiva e l’uso generalizzato della droga, consapevole di quanto sia facile esercitare tutto il potere su un popolo debole di mente e incapace di scegliere, e sul quale si può riversare qualunque porcheria.  Ed è proprio alla necessità di perpetuare questo genere di potere totale e perverso che va ricondotta una circostanza che dovrebbe invece far riflettere: all’immediata e praticamente universale riconoscibilità del sembiante di Andy Warhol e di molte delle “opere” a lui attribuite, corrisponde, come più sopra è stato detto, una conoscenza assai approssimativa per non dire assolutamente vaga di quella che fu in realtà la sua vita, proprio come se qualcuno avesse provveduto a far silenziare i non pochi testimoni oculari delle innumerevoli ignominie ascrivibili al più falso e ingannevole dei miti. Per esempio chi, tra i tanti cultori del bislacco personaggio, si è preso la briga di raccontarci quanto avveniva sotto la sua esclusiva regia nella mitica Factory da lui fondata? 


Arrampicatore sociale, abile come pochi, Andy era riuscito in giovane età a emergere dall’anonimato diventando l’amante di Truman Capote, il  più famoso scrittore omosessuale statunitense dei primi anni Cinquanta: una formula abbastanza scontata per raggiungere la notorietà passando dalla porta di servizio che egli, pubblicitario per formazione, una volta diventato famoso, decise di vendere alle torme di giovani che sgomitavano per godere dei benefici che immaginavano di poter ottenere entrando nella sua orbita. Egli, infatti, prometteva a tutti “un quarto d’ora di celebrità” in cambio di un pegno che si riservava di esigere  e che quasi sempre consisteva nello sfruttamento del loro corpo o del loro talento. Ma siccome l’avidità e la mancanza di scrupoli, in definitiva, non erano i peggiori elementi della sua natura assolutamente crudele e negativa, spesso il prezzo per non uscire dal cerchio di luce che egli era in grado di accordare saliva a dismisura e molti dei giovani irretiti dalla sua algida personalità e ancor più dalle droghe che nella Factory non mancavano mai, finivano per perdere la salute fisica assieme a quella mentale e, non di rado, anche la loro stessa vita. Mentre lui, cinico e perfettamente lucido (in quanto non personalmente dedito alla droga) era sempre lì,  con in mano l’immancabile cinepresa,  per filmarne l’abbrutimento derivante dalla decadenza fisica, le indicibili umiliazioni e perfino il momento estremo del trapasso che a volte avveniva a seguito di sfinimento fisico per assunzione di droghe e altro genere di veleni o per via del suicidio, a cui egli stesso aveva indotto il disgraziato di turno. Perchè la morte e il dolore degli altri lo affascinavano, quietavano, almeno per un po’, la sua invidia congenita in quanto lo risarcivano di quell’aspetto cimiteriale che la natura gli aveva dato e che risultava a lui stesso sgradevole.
 
 




Cominciare a far luce su tante realtà occultate è il presupposto indispensabile per far saltare il   paraocchi che ancora oggi impedisce ai più di scorgere l’abisso verso il quale sono tuttora orientate quasi tutte le espressioni della nostra vita. Finalmente liberato il campo dai condizionamenti “anti-tutto” e dai pregiudizi verso le rare voci che nel corso del tempo hanno cercato, sempre invano, di indicare i luoghi del pensiero in cui erano state prefigurate tutte le tappe di questo lungo cammino di demolizione di tutte le basi della crescita individuale e di una convivenza collettiva impostata sulla ricerca dell’armonia, sarà finalmente possibile capire quanto, in realtà, sarebbe stato facile evitare le infinite e multiformi trappole mortali disseminate in ogni angolo e lungo tutte le strade percorse da almeno due o tre delle ultime generazioni.



Restando nel campo dell’arte e a mero titolo di esempio, basterà porre attenzione al significato letterale dei punti programmatici del manifesto “dada”. Nato a Zurigo negli anni dieci del Novecento, il dadaismo è la corrente di pensiero a cui, a pieno titolo, può essere ricondotta la pop art e il fenomeno Andy Warhol. Nulla può essere più chiaro delle parole d’ordine contenute in questo proclama la cui attuazione, come appare evidente, al di là della pretesa (in verità già di per sé insensata) di rifiutare la tradizione in tutti i campi, a partire da quello artistico, non avrebbe portato alla libertà di espressione bensì all’ospedale psichiatrico. Che in seguito e sicuramente non  per caso è stato abolito. Recita il manifesto:

1) Per lanciare un manifesto bisogna volere A,B,C; scagliare invettive contro 1,2,3; eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffondere grandi e piccole a,b,c;

2) Firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non plus ultra, sostenendo che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio;

3) Con il manifesto dada non si persegue nulla; chi scrive il manifesto è per principio contro i manifesti. E’ anche contro tutti i principi. Lo scopo è quello che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie in un unico refrigerante respiro;

4) Si è in favore della contraddizione continua;

5) Dada non significa nulla;

6) Non si ritiene di dover dare spiegazioni.

 
















Utile fermare l’attenzione sui primi due punti. Essi delineano chiaramente il modello di comportamento abituale con cui ancora oggi  si tenta di ridurre al silenzio coloro che propongono una chiave di lettura diversa rispetto a quella corrente o offrono un pensiero finalmente rigenerativo.

Articolo di Miriam Pastorino