venerdì 17 agosto 2012

LE MILLE E UNA NOTTE, OVVERO LA NEGAZIONE DEL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE (segue)

Personaggio paradigmatico di tutta l’opera è Harùn el Rashìd, il califfo che, per scoprire come vivono e cosa pensano i suoi sudditi, si traveste da popolano e si mescola alla folla, divenendo al tempo stesso monarca e popolano e sperimentando così la vertigine di essere se stesso e l’altro da sé. L’autore, o meglio gli autori di questa macchina prodigiosa non hanno letto Aristotele e non conoscono il suo principio di non contraddizione, secondo il quale un uomo è un uomo e non può essere anche una trireme o un muro: nozione che ha guidato per lungo tempo il cammino di noi occidentali.
La stessa cornice di questo immenso contenitore di novelle si presenta come un’affermazione dei contrari: il tradimento sostituisce la lealtà, la maestà e la bellezza esigono il coniugio col plebeo e col laido. All’origine del meccanismo narrativo c’è un adulterio, quindi, apparentemente, l’evento più comune e banale, ma quello che più d’ogni altro sfrena la lingua e, in quanto causa di disordine e conflitto da cui scaturisce la tragedia o la commedia, il motore stesso della narrazione. Ma il tradimento viene consumato sempre all’insegna dell’affermazione dei contrari: le mogli dei due sultani traditi commettono l’adulterio affinché si verifichi la congiunzione del bianco col nero, del regale col servile, della bellezza con la deformità, del luminoso col tenebroso; una regola che si perpetuerà per tutta la durata delle Notti. Dunque, c’è un adulterio, anzi due adulteri, perché i mariti traditi sono due, i fratelli sultani, i quali, alla scoperta del tradimento, reagiscono entrambi decretando la morte immediata delle mogli e degli amanti infedeli. Ma uno dei due, sia per scongiurare il ripetersi dell’onta subita, sia per vendicarsi del genere femminile, giudicato ormai non degno d’alcuna fiducia, adotta una singolare e crudele abitudine: quella d’impalmare ogni giorno una nuova fanciulla, facendola giustiziare allo spirare della prima notte nuziale trascorsa con lei.
 E’ a questo punto che entra in scena Sharazade, la giovinetta dotata d’un dono di narratrice così cattivante da far rimandare ogni volta la sua esecuzione al re che non può fare a meno d’ascoltare, notte dopo notte, i suoi infiniti e seducenti racconti.
Da quando, tre secoli orsono, il francese Antoine Galland tradusse e pubblicò i suoi Contes arabe (non importa se, come fu affermato in seguito, alcune novelle le tradusse, altre le inventò, tutte le riscrisse nel suo stile squisito e incantatore), l’Europa fu sedotta e irretita da questo lussuoso ginepraio abitato copiosamente dall’errore e dall’equivoco, da questo viaggio notturno dove la realtà e il meraviglioso si scambiano incessantemente le parti e dove si transita con estrema disinvoltura dalla soglia dell’essere a quella dell’apparire.  Come per un’ubriacatura o per una vertigine, la coscienza europea fu pervasa dall’impressione che il sovrannaturale abitasse in mezzo agli uomini e che la frivolezza andasse a braccetto della tragedia, che il reale fosse alleato dell’inverosimile e che il miracolo fosse un attributo del gioco. La sua immaginazione cominciò a nutrirsi di questo equivoco e a percorrere con leggerezza i deliri evocati dalla magia ambigua e illusionistica delle Notti Arabe. Nessuno ha mai indagato veramente il significato che ha avuto per la cultura europea la lettura delle Mille e una notte, specialmente nei domini dell’arte, in quella letteraria, naturalmente, ma anche, e in modo sensibile, in quella figurativa e in quella musicale. Qui ma, com’è ovvio, non solo qui, la saldezza del principio aristotelico di non contraddizione viene inquinato dall’attitudine ad attribuire ad ogni cosa un volto molteplice. Il concetto di identità diventa una nozione fluida, segreta, misteriosa, per conoscere la quale bisogna affidarsi al sogno che esplora le regioni occulte dell’essere. Montesquieu e Nerval, assieme ai più accesi spiriti romantici, sono gli alfieri di questa nuova tendenza a indagare il sotterraneo e l’arcano. Ma la schiera di coloro che hanno bevuto alla fonte illusionistica e paradossale delle Mille e una notte è diventata, col tempo, una vera e propria legione. Il grande Wolfgang Mozart vi ha attinto a grandi sorsi, come prova Il flauto magico, una delle sue opere più famose. Perfino un cultore dell’equilibrio e dell’ordine come l’altro grande Wolfgang di Germania, Goethe, ha guardato a quel modello per comporre il suo pirotecnico Faust. Tra gli altri che hanno subìto fortemente l’influenza delle Notti vanno segnalati, considerando letterati, musicisti e pittori (e ci limitiamo solo ai nomi più illustri), Chautebriand, Coleridge, Hoffman, De Quincey, Diderot, Balzac, Flaubert, Ingres, Delacroix, Renoir, Rimskij-Korsakov, Dickens, Stevenson, Hofmannsthal, Borges. Nemmeno Marcel Proust può dirsi esente da quell’influsso e perfino, certo senza alcun sospetto da parte dell’interessato,  Sigmund Freud, indagatore opinabile di sogni e di chimere sessuali.  

Dionisio di Francescantonio

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