giovedì 18 ottobre 2012

IL NILO E L'EGITTO



Il Nilo è l'Egitto; è la linfa vitale, lo stesso principio della vita; tanto che gli egizi non si limitavano a considerarlo una patria, ma ne fecero addirittura un dio, Api, componendo in suo onore inni di festosa adorazione.
Salute a te, Api, esci dalla terra e giungi a dar vita a Keme,
onda che ti spandi sugli orti per dar vita a tutto ciò che ha sete...
Quando tu straripi, o Api, la terra urla di gioia, ogni ventre è in festa,
ogni dorso è scosso dalle risa, ogni dente mastica...


E il sole, la massima divinità del popolo egizio, Amun-Ra altrimenti detto Rahotep “il contento”, il dio grande e benefico, principio di vita (ma nel deserto anche causa, appunto, di morte, e allora è Set “l'implacabile”), lo si immaginava traghettare il cielo in barca, così come il faraone, il “dio in terra”, traghettava il Nilo sulla sua barca regale. L'immagine del fiume era dappertutto, suggeriva le metafore e determinava il pensiero, era causa e ragione di tutte le cose, giacché l'essere nel mondo degli uomini che più di 5000 anni fa cominciarono presso quel fiume a prosperare, dando vita alla prima civiltà storica e forse alla cultura più insigne dell'antichità, dipendeva direttamente dall'esistenza del fiume e dal ciclo annuale delle inondazioni. Ancora oggi per il popolo egiziano il fiume, come al tempo dei faraoni, è la linfa vitale e la risorsa esclusiva; ma se nel passato esso è stato la fonte di una leggendaria opulenza, ai nostri giorni invece è ben lungi dal fornire nutrimento sufficiente a una popolazione che cresce continuamente e non trova più di che vivere nella troppo esigua terra d'Egitto. Ciò perché, nonostante l'intera superficie della Repubblica Egiziana odierna superi quella di qualsiasi nazione europea, i suoi attuali ottanta milioni di abitanti e più sono obbligati a vivere ammassati solo sul tre per cento del territorio, quello, appunto, che corre lungo i fianchi del Nilo, il solo coltivabile come ai tempi degli antichi egizi. Ed è in questo eccesso di popolazione che risiede la causa attuale della povertà dell'Egitto, mentre all'epoca dei faraoni l'equilibrio tra numero degli abitanti e ricettività e produttività del suolo consentiva agli agricoltori di ottenere una produzione notevolmente superiore al loro fabbisogno domestico, per cui il sovrappiù poteva essere devoluto all'esecuzione di grandi lavori pubblici oltre che al mantenimento e alla prosperità di caste di nobili, di sacerdoti, di sapienti, di militari, di funzionari, di architetti e di artigiani, i quali plasmarono quella società complessa ma unitaria, splendida e abbagliante, che fu l'Egitto faraonico e che durò per oltre quattromila anni, restando ostinatamente fedele a se stessa, alla propria lingua, al proprio concetto della vita e dell'oltretomba, alle proprie leggi rigorose e ai propri giochi e svaghi particolari.

Il prodigio del Nilo, un fiume in mezzo al deserto che dà vita a un'oasi lunghissima e che con le sue piene ricche di limo fertilizzante permette a un popolo di agricoltori di produrre due o tre raccolte all'anno e di edificare su questa base una civiltà lussuosa e raffinata, viene dunque a cadere nel momento in cui si verifica uno squilibrio tra la quantità di frutti concessa dalle acque del Nilo e la quantità di bocche aspiranti a nutrirsi di quei frutti. Non ci è possibile indicare con precisione quale fosse il numero degli abitanti dell'Egitto in epoca faraonica, ma, sulla base della testimonianza fornita dai documenti greci e romani, si può presumere che esso non abbia mai superato, al massimo del popolamento della valle del Nilo, i sei o sette milioni di individui; una quantità minima, come si vede, rispetto al popolamento abnorme dei nostri giorni. Eppure già al tempo dei faraoni l'impegno per il controllo e l'impiego delle acque del Nilo onde garantire la prosperità del suolo – e quindi il nutrimento per tutti gli abitanti, oltre al superfluo – era massiccio e incessante, come viene testimoniato sia da una delle più antiche raffigurazioni del faraone, dove il monarca egizio appare occupato a scavare un canale con le sue stesse mani, sia dalla consuetudine di indicare sulle liste regali, sorte di annali redatte dagli scribi degli avvenimenti occorsi durante i vari regni, le diverse elevazioni raggiunte dalla piena del Nilo. Anche allora esisteva la consapevolezza che una rottura dell'equilibro, dovuta a una o più annate di piena insufficiente, sarebbe risultata rovinosa o addirittura fatale per l'Egitto. La prova più suggestiva di tale consapevolezza la troviamo nella celeberrima storia di Giuseppe che interpreta i sogni del faraone, così come ci viene narrata nella Bibbia, al libro della Genesi. Come si ricorderà, il faraone di quel tempo, uno dei tanti Amenhotep, forse il IV o il V, aveva sognato sette vacche bruttissime, magre e affamate, divorare sette splendide vacche grasse, e sette spighe macilente, vuote e arse dal vento, inghiottire sette magnifiche spighe colme e dorate; e Giuseppe, consultato dal faraone turbato dai due sogni oscuri e inquietanti, spiegò che le sette vacche grasse e le sette spighe colme rappresentavano sette annate di grande abbondanza di raccolto per l'Egitto, mentre le sette vacche magre e le sette spighe vuote altrettante annate di carestia che avrebbero fatto seguito all'abbondanza ed esposto il paese al rischio del disastro. Solo facendo prelevare il quinto dell'intero raccolto durante i sette anni di abbondanza e ammassandolo nei granai come riserva per le annate di carestia – fu quindi il giudizioso consiglio fornito da Giuseppe al faraone – si sarebbe potuto preservare il popolo dalla fame e salvare l'Egitto dalla perdizione.
L'imponderabilità della profusione o della scarsità di una piena, e quindi della dovizia o dell'irrilevanza del raccolto, era per gli antichi egizi aggravata, oltre che dalla rudimentalità della tecnologia allora a disposizione per il controllo e la distribuzione più efficace dell'acqua, dal fatto che essi ignoravano completamente quali fossero le sorgenti del Nilo e quali le origini delle sue piene preziose. 

La storia delle indagini e delle esplorazioni per giungere alla scoperta delle sorgenti del Nilo riempie un capitolo vastissimo della grandiosa vicenda del fiume, oltre che costituire, naturalmente, una delle mystery-story più intriganti e affascinanti per più generazioni di uomini. La fisionomia estremamente ingarbugliata del territorio attraversato dal Nilo ha impedito per secoli di sciogliere l'enigma. Le sei cateratte a monte di Assuan ne impediscono la navigazione oltre questo limite e nei pressi della conca sudanese le acque si disperdono in un groviglio di acquitrini e paludi da cui è impossibile districarsi per ritrovare la via che consenta di risalire fino alle sorgenti. Peraltro, nel quinto secolo a. C. Erodoto aveva elaborato una sciagurata teoria sul Nilo che contribuirà a creare una confusione destinata a durare per un tempo interminabile. L'insigne storico greco, infatti, aveva opinato che il Nilo coincidesse col Niger, l'altro grande fiume africano; secondo lui si trattava di uno stesso corso d'acqua che nasceva nell'Africa occidentale, attraversava la conca del Ciad e si dirigeva quindi verso l'Egitto. Una versione più vicina alla realtà venne invece avanzata nel secondo secolo d. C. da un altro greco, l'astronomo e geografo Tolomeo, il quale aveva consultato nella biblioteca di Alessandria le opere di Marino di Tiro (vissuto nel primo secolo), a loro volta ispirate dai racconti di Diogene, ardimentoso esploratore ante litteram della costa orientale dell'Africa. Basandosi sulle indicazioni ricavate da quelle letture, Tolomeo tracciò una carta in cui comparivano le imponenti montagne della Luna cinte di nevi, alle cui pendici settentrionali disegnò una regione lacustre da cui fioriva un primo fiume che andava a confluire, più o meno all'altezza della città nubiana di Meroe, in un secondo emissario proveniente da un lago situato più a sud. Le scoperte degli esploratori europei confermeranno proprio questo schema, da sempre ritenuto sospetto a causa dell'ampio credito riservato a Erodoto in Europa. Gli antichi, quindi, avevano già individuato i principali elementi geografici dell'alto corso del Nilo, essenziali per spiegarne l'origine: montagne elevate, laghi e – componente cruciale – un grande affluente sulla riva destra. Ma quest'ultimo complicava ulteriormente le ricerche, in quanto vi erano due fiumi da scoprire: quello che sarà poi chiamato il Nilo Azzurro, che rampolla e scende dall'altopiano etiopico, e il Nilo Bianco, che si sviluppa nel cuore dell'Africa. Tra l'altro, Diogene aveva già intuito l'inutilità di risalire il Nilo: occorreva cercare le sorgenti partendo dalla costa dell'oceano Indiano, proprio come poi faranno gli esploratori europei.
L'aristocratico scozzese James Bruce, scopritore intorno al 1765 del lago Tana situato sull'altopiano etiopico, dal quale, attraverso le maestose cascate del Tissisat, nasceva un corso d'acqua diretto verso il Sudan, individuò per primo la sorgente del ramo orientale del fiume, ossia il Nilo Azzurro, mentre la sorgente del ramo occidentale, il Nilo Bianco, fu scoperta solo nel 1857 a seguito della spedizione di due ufficiali inglesi, John Hanning Speke e Richard Burton. La spedizione, organizzata all'isola di Zanzibar, era stata promossa con ampi finanziamenti dalla Royal Geographical Society, ma si rivelò irta di difficoltà d'ogni genere, sfibrante per la lunghezza e asperità del percorso ed estremamente perniciosa per la salute dei due esploratori; tanto che sarà il solo Speke, dal momento che Burton, troppo malato, era stato costretto a fermarsi, a raggiungere la sorgente, quella sorta di grande mare interno rappresentato dal lago più vasto dell'Africa (68.000 chilometri quadrati) battezzato dallo stesso Speke Lago Vittoria in onore della regina inglese e che, con l'ausilio dei più piccoli laghi adiacenti e ad esso comunicanti, alimenta il corso d'acqua che giungerà fino alla costa mediterranea.
Questa, molto sinteticamente, la storia delle avventurose esplorazioni che approdarono alla conoscenza delle sorgenti del Nilo. Ma il regime estremamente complesso dell'afflusso delle acque in Egitto è stato decifrato, per la verità, solo in epoca recente. Sulla regione dei grandi laghi equatoriali da cui prende le mosse il fiume immortale si abbattono, annualmente, le copiose piogge africane in primavera. Ma l'acqua proveniente dai laghi gonfiati da tali precipitazioni non arriverebbero che in misura inadeguata in Egitto, poiché l'evaporazione in atto nei bacini sudanesi del Nilo Bianco, molto intensa, ne assorbe una quantità ingentissima. Fortunatamente il fiume beneficia di un secondo e più importante apporto di acque, quello dovuto ai monsoni degli altipiani dell'Abissinia, che scaricano sul Nilo Azzurro piogge cospicue trascinanti con sé, oltretutto, il prezioso limo strappato alle terre vulcaniche dell'Alta Abissinia. Ciò che resta del flusso partito dai laghi tropicali tra maggio e giugno comincia a giungere in Egitto a luglio, ma immediatamente dopo segue quello, più ricco, proveniente dall'Abissinia, dove il massimo di precipitazioni si riscontra da giugno a ottobre. La piena del Nilo si verifica quindi in piena estate e ciò è di fondamentale importanza in un paese dal clima sahariano, dove la massima temperatura si manifesta in luglio e in agosto e dove il suolo, perciò, si ricopre di acque proprio all'epoca in cui il solleone minaccerebbe di essiccare e annientare ogni coltivazione; mentre d'inverno, allorché il sole è considerevolmente più mite, le acque regolari del fiume bastano ad alimentare le colture anche con i sistemi tradizionali di irrigazione, costituiti da canali scavati rudimentalmente e da piccoli sbarramenti di legno e fibre intrecciate.
Questo meccanismo così preciso poteva – com'è facile immaginare – incepparsi e provocare disastri con estrema facilità: bastava appena un ritardo delle piogge da una delle località di provenienza delle acque per determinare una piena inadeguata o irrilevante. Oggi che il complesso sistema di flussi e deflussi del Nilo ci è perfettamente noto, l'uomo ha cercato di porvi rimedio costruendo una diga imponente, quella di Assuan, capace di garantire una sorta di immagazzinaggio permanente dell'acqua volta ad attuare una piena artificiale a portata regolare, in grado di sovvenire ai bisogni agricoli di ogni stagione con l'utilizzazione metodica e mirata delle acque del fiume. Ma se l'alta tecnologia oggi in possesso degli uomini ha permesso di imbrigliare e di utilizzare sistematicamente un delicato e imprevedibile processo naturale di fronte al quale gli egiziani di una volta potevano solo riconoscere la propria inermità, non possiamo non ammettere, di fronte all'attuale miseria dell'Egitto e alla sua favolosa prosperità di un tempo, l'abisso che, in termini di saggezza, di buon senso, di previdenza e lungimiranza, separa l'uomo di oggi da quello che ha saputo assicurarsi per oltre quattromila anni condizioni di vita tanto più ragguardevoli e allettanti delle sue.
Dionisio di Francescantonio



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