lunedì 8 ottobre 2012

LEPTIS MAGNA, UNA CITTA’ ROMANA VISIBILE NELLA SUA (QUASI) INTEGRITA’

Una volta penetrati al suo interno, non sembrava possibile che la vita vi fosse finita per sempre; alcune strade ed edifici e finanche pezzi interi di quartieri apparivano così ben conservati  nella loro funzionalità e compiutezza da suggerire l’illusione che da un momento all’altro dovesse riprendere il vocio degli abitanti e lo strepito delle loro attività, quasi che la vita nella città taciturna fosse solo momentaneamente interrotta a causa d’un crudele sortilegio. Percorrevo attonito le vie rese surreali dalla quiete assoluta, calcando pavimenti di pietra o di marmo astrattamente echeggianti, passando sotto archi e frontoni sfarzosi e tra colonnati imponenti, in piazze nitidamente riconoscibili benché ingombre di colonne capitelli frammenti di statue e fregi, evocando ad ogni passo, con la fantasia eccitata, i fantasmi d’un passato fulgido già tanto lontano eppure là, in quella città paradossale e, se così posso dire, metafisicamente consistente, stranamente vicino, quasi tangibile.

Ecco, più di ogni altro a proposito, l’arco di Settimio Severo, il monumento eretto per celebrare le gesta di colui che, divenuto, da generale al comando di valorose legioni, imperatore di Roma dopo aver posto fine a un periodo di torbidi e di anarchia in cui l’autorità imperiale era temporaneamente inciampata, conferì a Leptis, dov’egli era nato, il suo aspetto straordinario, possente e magnifico. Settimio Severo era un uomo dei confini dell’impero, un esponente di quelle etnie assoggettate a Roma e poi assimilate; scuro di pelle e afflitto da un forte accento punico-libico di cui non riuscì mai a liberarsi (originariamente Leptis era un insediamento cartaginese), ascese al rango di imperatore non solo per le sue notevoli qualità di stratega militare, ma precisamente per la sua totale e starei per dire viscerale romanizzazione. Se, com’è logico ritenere, a quei tempi i meccanismi psicologici non differivano da quelli attuali, la conversione dell’uomo alla romanità fu tanto più piena e convinta in quanto egli non era cittadino romano per diritto di nascita, ma per volontà di identificazione. Va da sé che, proprio per questo, volle, da imperatore, fare del proprio luogo natio (che prima della sua ascesa al potere supremo era solo una colonia ancora soggetta al versamento del tributo alla Madre Patria), una delle città romane più belle e sfarzose di tutto l’impero.
Con tutto ciò, il quadrifronte arco a lui dedicato è forse uno dei monumenti più singolari dell’architettura romana, audace e, per l’epoca in cui sorse (203 d. C.), nuovissimo, anzi rivoluzionario, tanto che, a proposito della sua lussureggiante decorazione marmorea, qualcuno ha parlato di “barocco” romano, mentre altri, per via della posizione frontale delle sue sculture, d’un presagio o d’un annuncio dell’arte bizantina; accostamento, quest’ultimo, a mio avviso francamente incongruo e dove, per inciso, si svela in modo clamoroso lo spiazzamento di taluni storici dell’arte europei di fronte ad un “manufatto” indubbiamente troppo complesso per essere giudicato con metri di riferimento esclusivamente occidentali e nel quale per la verità, e con ogni evidenza, confluiscono e si mescolano tradizione figurativa classica e rappresentazione orientale, forse d’ispirazione egizio-siriaca (la cui scultura obbediva, tanto per intenderci, a criteri rigorosamente frontali). Certamente fu opera di architetti e scultori attivi nel bacino mediorientale, meno legati all’ortodossia  artistica romana di quanto accadesse a chi operava in Roma e dintorni. Tutta la città, d’altronde, non solo la parte voluta da Settimio Severo, ma anche il teatro e il mercato d’età augustea, fitti di colonne e decorazioni, trasudavano, come potei osservare, lo stesso gusto “esotico” pur nel legame estetico-strutturale strettissimo e inequivocabile mantenuto con la classicità latina. Va detto, tuttavia, che all’esotismo dell’insieme contribuiva non poco la pietra locale, un materiale dal tono fulvo, intensamente caldo, capace di suscitare lancinanti suggestioni estetiche proprio nell’accostamento sonoro al candore lustrale dei marmi provenienti dalle cave greche e italiche.

 Proseguendo la visita, ecco le Terme di Adriano (del 126 d. C., queste) le quali, oltre ad indicarci come la città, anche prima dell’intervento severiano, fosse tutt’altro che una colonia di poco conto, senza dubbio perché la sua posizione mercantile eminentemente strategica le garantiva la gestione d’una ingente ricchezza (porto di grande movimento collocato al termine d’una importantissima carovaniera attraverso la quale pervenivano i prodotti esclusivi dei mercati dell’Africa nera, essa alimentava costantemente i gusti raffinati ed “esotici” della Madre Patria), ci introducono, quasi didatticamente, alla funzione delle terme, ricordandoci come la civiltà romana riuscisse sempre a coniugare l’efficienza politico-amministrativa e le virtù militari con una spiccata propensione alla piacevolezza del vivere. All’interno delle terme, la natatio precedeva le stanze del frigidarium, del tepidarium e del calidarium, nomi da cui indoviniamo facilmente la destinazione d’uso degli ambienti. Nei sudatorii erano ancora visibili – e forse, volendo, funzionanti – i tubi attraverso i quali era destinato a passare il vapore bollente alimentato alla fonte da un fuoco incessante: un sistema idrico sorprendentemente evoluto che, dopo due millenni, ispira per molti aspetti tecniche e soluzioni ancora adottate nel nostro mondo ipertecnologicizzato. E qui non posso rinunciare a formulare una piccola ma necessaria puntualizzazione. Ormai la maggioranza di noi ignora, perché nessuno ce lo ricorda più da tanto tempo, che la civiltà da cui nasciamo aveva già scoperto tutto (o quasi) ciò che occorre per rendere facile e gradita l’esistenza e che essa si riflette sui nostri giorni non certo unicamente come testimonianza archeologica o come motivo di ricerche erudite, ma soprattutto quale eredità tangibile e ancora attiva nel mondo in cui viviamo, e beninteso non solo nel campo della tecnica e della meccanica ma anche in quello, fondamentale, delle scienze sociali, prima fra tutte l’arte del Diritto.
D’altronde, il piacere del vivere, inteso come vero e proprio gusto estetico dell’ambiente dove l’esistenza si svolge (da considerarsi all’opposto del gusto di coloro che hanno voluto misurare gli ambienti costruiti dall’uomo, da un certo momento in poi della nostra storia, esclusivamente col metro della cosiddetta funzionalità, quella funzionalità coniugata fatalmente alla bruttezza e allo squallore che l’avvento dell’estetica modernista ha portato con sé), si respirava a Leptis a profusione e continuava a riversarsi su di me ovunque guardassi e dirigessi i miei passi. Anzi, per meglio dire, la città stessa, con le sue soluzioni urbanistiche e architettoniche spesso ardite, fantasiose e sempre sospette di concedersi al puro piacere dell’apparire – da cui l’effetto scenografico di gusto teatrale che poteva suggerire ma dal quale la riscattava continuamente il virtuosismo dello stile architettonico e l’intelligenza e nobiltà della concezione urbanistica – si configurava come un autentico sogno estetico, un sogno autorevole di pura bellezza. Sull’orlo di quel sogno, era facile per me immaginare quale piacere e vorrei dire genuina e ininterrotta voluttà dovesse essere per gli abitanti vivere in un luogo simile, specialmente se paragonavo, com’era inevitabile, la loro esistenza a quella che è costretta a condurre buona parte di noi negli abominevoli insediamenti costruiti a ridosso e in parte anche dentro le incantevoli città che a quel modello classico avevano  ispirato il loro divenire fino a non molto tempo fa.
Ma il pensiero di ciò che abbiamo fatto dei luoghi in cui molti di noi trascorrono oggi la vita era presente in me, in quel momento, solo come un ricordo sconveniente e molesto, non nella veste del monito aspro e pressante in cui può apparire come l’ho appena riferito, giacché la bellezza di Leptis Magna mi sovrastava e possedeva con tale forza ch’io badavo unicamente a identificarmi con coloro che avevano avuto il privilegio di farne la sede della loro esistenza, così da indovinare e recuperare lo stesso gusto che doveva trasmetter loro la contiguità e familiarità con una città di tale fascino e suggestione. Infatti, quanto più mi inoltravo dentro di essa e ne scoprivo ad ogni passo aspetti sempre più inattesi e seducenti, come l’imponente via fiancheggiata da un duplice colonnato diretta al bacino del porto, riassaporavo pari pari il senso di soddisfazione e pienezza estetica che doveva pervadere, come sono convinto, gli antichi abitanti allorché li immaginavo compiere lungo quella strada di veemente bellezza la loro passeggiata serale, quella che già al tempo dei romani, e fino a ieri in tutto il bacino mediterraneo, la gente si concedeva prima di recarsi a cena.
Toccavo insomma con mano come la città romana, per chi vi abitava, dovesse rappresentare, oltre al luogo dove si lavora ci si diverte e si sogna ad occhi chiusi o aperti, una perenne educazione alla bellezza, una consuetudine a nutrirsi di ciò che di più sublime e confortevole offre l’ingegno e il talento dell’uomo posti al servizio della comunità; ed io ritrovavo per l’appunto a Leptis le radici della mia cultura e l’essenza stessa del gusto di vivere trasmessomi in dote da quei miei magnifici antenati e dalle generazioni delle età successive che non hanno mai smesso di richiamarsi ad esso: quel gusto che neppure la barbarie del secolo appena trascorso ha potuto offuscare del tutto e che forse potremo ancora recuperare, se saremo capaci di tornare ad esercitare quell’intelligenza alleata al buon senso da troppo tempo negletta o smarrita nel decidere il modo e il come configurare la nostra esistenza.
 Percorrendo l’ampia e solenne via colonnata, esempio d’un virtuosismo architettonico e monumentale stupefacente, raggiunsi il porto, il grandioso Porto Nuovo fatto costruire anch’esso da Settimio Severo in sostituzione di uno precedente, al quale attraccavano le grandi navi nelle cui stive venivano ammassati, oltre al grano e all’olio ricavato dagli ulivi coltivati nella piana stessa di Leptis, all’epoca verde e feconda, l’oro e l’avorio destinati a rifornire i banchi degli artigiani romani e gli animali feroci – leoni, leopardi, rinoceronti – diretti verso le arene dell’impero per essere impiegati nei giochi riservati al divertimento dei cittadini romani.  Il porto severiano ormai si mostrava semisommerso dalla sabbia; il mare che anticamente lo lambiva era stato respinto lontano; solo qua e là la pietra corrosa e scheggiata della banchina conservava il supporto d’aggancio dell’anello di ferro al quale un tempo venivano assicurate le cime delle navi imponenti. L’intera insenatura destinata ad ospitare le imbarcazioni appariva interrata, come d’altronde sepolta e occultata da migliaia di metri cubi di sabbia era rimasta tutta la città fino a quando i preziosi scavi realizzati da archeologi italiani nel periodo della nostra occupazione della Libia non la riportarono alla luce, riscattandola finalmente da quella sabbia tuttora presente ai suoi piedi e il cui riflesso, anche dall’interno della città liberata, non mancava di ferire gli occhi.
Per spiegare la scomparsa della vita a Leptis Magna e il suo insabbiamento, che ne ha permesso la conservazione in gran parte integrale fino ai nostri giorni, è stata avanzata, accanto alle cause più generali della decadenza e della fine dell’impero romano, prime fra tutte le invasioni barbariche e i disordini e le distruzioni che ne scaturirono, un’ipotesi naturalistica di indubbia suggestione. Secondo questa ipotesi, la grande prosperità della città finì per provocare un eccessivo aumento dei suoi abitanti, saliti, al culmine del processo di inurbamento, oltre le centomila unità, un conglomerato umano enorme per i tempi di cui parliamo. La necessità di disporre di sempre nuovo terreno agricolo per garantire il nutrimento alla popolazione crescente indusse i governanti di Leptis al progressivo  abbattimento delle cospicue foreste che una volta la circondavano, fino alla loro completa estinzione. Il suolo fertile, senza più radici vegetali capaci di trattenerlo, finì per essere trascinato via dal vento e dalla pioggia. Ed ecco dove, massimamente, andò a riversarsi: in quel mare che consentiva alle navi di approdare al suo scalo. Con l’insabbiamento del bacino del porto cessarono i floridi commerci da cui derivava la ricchezza della città e il terreno, desertificato, smise di produrre il grano e ogni altro frutto necessario all’alimentazione degli abitanti. Così cessò lentamente la vita a Leptis Magna; e quella che fu una delle città più splendide dell’impero romano decadde e fu gradualmente abbandonata, per essere poi ricoperta col tempo dalla sabbia del deserto accumulatale addosso ogni giorno dal soffio tenace dei venti.

Dionisio di Francescantonio


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