domenica 4 novembre 2012

TUTTO E' STATO GIA' FATTO?


Questa la trama del romanzo immaginario, che Borges si premura di attribuire alla penna d’un inesistente avvocato di Bombay, Mir Bahadur Alì, e della quale, dopo averla riassunta non senza indulgere a molti dettagli di colore indiano, di derivazione kiplinghiana, ne descrive le varianti subite in due diverse edizioni (deplorando la seconda, letterariamente meno felice della prima), l’accoglienza lusinghiera ricevuta dal pubblico e le numerose recensioni avute sui giornali più importanti del continente indiano, notando che i critici segnalano, opportunamente, “il meccanismo poliziesco dell’opera e la sua undercurrent mistica”. Dopodiché passa a discuterne i meriti e i difetti, concludendo che l’autore, Mir Bahadur Alì, “è incapace di sottrarsi alla più goffa delle tentazioni dell’artista: quella di essere un genio”.
Ora, non v’è chi non colga, da quanto pur sommariamente riferito, l’intenzione ironica del racconto, un’ironia rivolta in primis all’autore (cioè da Borges a se stesso) e, per questa via, allo stesso esercizio della narrazione, come se Borges mettesse le mani avanti per dichiarare la sua perplessità verso la materia che tratta (ossia lo stesso racconto che costruisce) e in pratica dicesse: “Guardate che questo non è un racconto, ma una finzione di racconto” (e infatti titola Finzioni il volume che raccoglie questo e altri racconti dello stesso genere). Il fatto straordinario è che, nonostante tutto, Borges riesca a confezionare un prodotto che risulta alla lettura gustoso e avvincente, ma, soprattutto, a raggiungere quella magia sottile, data dalla sua arguta ironia, che ci fa constatare d’essere in presenza d’un risultato di autentica letteratura d’arte. Questo, com’è ovvio, deriva dal talento dell’autore; ma ciò che importa notare è che Borges è uno scrittore che esercita l’arte della narrazione in una posizione che non possiamo non definire di scetticismo.
Il secondo esempio che mi viene in mente si riferisce a un altro scrittore, Luigi Pirandello, il quale arriva a fare del dilemma tra arte e vita il tema stesso della sua scrittura; tema affrontato prima in  due testi narrativi, le novelle La tragedia di un personaggio e Colloqui coi personaggi e poi sviluppato compiutamente nel dramma Sei personaggi in cerca d’autore, rappresentato per la prima volta a teatro nel 1921. Qui non solo siamo in presenza di vicende prive di intreccio, di fatti – per così dire – senza sostanza, ma ci troviamo al di qua della narrazione, addirittura sul terreno della non vita, con personaggi privi di realtà. Non teatro della vita, dunque, ma, letteralmente, teatro nel teatro. Non per nulla Pirandello sottotitola i Sei Personaggi in cerca d’autore “commedia da fare”, perché, in effetti, il dramma di questi personaggi non riesce a rappresentarsi poiché l’autore non li ritiene completamente veri, ossia creature umanamente compiute, ma solo larve, ombre o meglio maschere a un’unica dimensione (e infatti indossano ciascuno la maschera con l’espressione del sentimento che li domina, vale a dire l’angoscia del rimorso, lo sdegno vendicativo, la mortificazione, il dolore), pur pervasi come appaiono da un anelito disperato di vita che li spinge a entrare in un teatro e a chiedere al capocomico e agli attori che stanno provando un proprio spettacolo di rappresentare la loro storia. Ma, appunto, benché il capocomico, interessato dalla singolarità dei personaggi, provi a mettere in scena la vicenda torbida e patetica che quelli gli raccontano in maniera confusa e caotica, senza sviluppo logico e senza concatenazione di avvenimenti, ciò che alla fine viene rappresentata è solo la commedia di un vano tentativo, giacché, come fa notare uno dei personaggi al capocomico, “Le par possibile che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con l’immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?” Ma tutta l’opera di Pirandello è imperniata su personaggi che non vivono mai compiutamente la loro esistenza, condannati come sono a “rappresentare” una parte in cui non riescono a riconoscersi e a restare quindi prigionieri d’una maschera subìta e spesso odiata.  E la sua scrittura obbedisce perciò a questa riserva nei confronti della vita, una vita che appare mutilata, negata, falsata, e verso la quale l’autore manifesta, anche nel modo di rappresentarla, la sua perplessità e il suo scetticismo investendoli di quell’umorismo nero che contraddistingue la sua maniera.
 Il terzo esempio lo trovo ancora nella letteratura, e precisamente nell’Ulisse, ponderoso romanzo di James Yoice pubblicato nel 1922.  In questo romanzo, per raccontare la giornata di un uomo qualsiasi senza particolari qualità, l’agente di pubblicità Leopold Bloom seguìto nelle sue peregrinazioni e nei suoi incontri per le strade e nei locali pubblici e in quelli equivoci della città di Dublino dalle otto del mattino alle due di notte, Yoice ricorre a una sbalorditiva quantità di tecniche narrative che spaziano dal monologo interiore all’imitazione del modello biblico e chiesastico, dal flusso di coscienza allo stile cronachistico dei giornali, dalla catalogazione di fatti e persone nei modi del registro aziendale al genere pièce teatrale, configurandosi insomma come una summa e una parodia  degli stili più diversi che dalla lingua arcaica delle cronache medievali arriva via via al linguaggio rozzo e gergale parlato dal popolo minuto dei nostri giorni.  Yoice, in pratica, realizza in chiave burlesca, e quindi dissacrante, una cronaca gigantesca e onnicomprensiva di un modo di raccontare storie per dichiararne la fine e il superamento e per l’affermazione di uno sperimentalismo eretto a sistema, condannando quindi l’arte, come avverrà dopo di lui, ad essere per sempre contemporanea e d’avanguardia, in perenne e patologica ricerca di se stessa.
 Forse ancor più chiaramente di Yoice questo processo lo avvia, e lo pratica per tutta la sua lunga vita, che occupa buona parte del Novecento, il pittore Pablo Picasso – e siamo all’ultimo esempio della mia riflessione. Anche Picasso è dotato d’una grande versatilità e capacità dissacratoria, ma soprattutto d’una voracità insaziabile che gli consente di appropriarsi e di saccheggiare modi e tecniche altrui per dichiararne il superamento verso altre maniere d’espressione che, nelle loro forme estreme, preludono, o meglio configurano già, l’informale e l’astratto, con tutti gli equivoci che ne deriveranno e l’approdo verso l’inespressività e l’incomunicabilità dell’artista col pubblico che si è drammaticamente imposto specialmente negli ultimi decenni del Novecento, continuando a riverberarsi malinconicamente in questo primo scorcio del nuovo secolo.
Qui, chiaramente, ho chiamato ad esempio della mia riflessione sull’arte moderna e contemporanea quattro giganti dell’arte, che, avendo assimilato a fondo la tradizione della comunicazione artistica dell’Occidente, hanno voluto, con la loro opera, postularne il superamento per aprire il discorso dell’espressione verso nuovi orizzonti, a cui però ha fatto seguito una sempre più sterile imitazione dei loro modi (e questo se c’era almeno sincerità di intenti), quando non, addirittura, la ciarlataneria e l’impostura. E’ questa situazione di impasse, quindi, che fa dire a molti di noi che “tutto è stato già fatto”. Ma io non credo che sia così. Semplicemente noi siamo pervenuti alla fine di un’era che, per brevità, possiamo definire di distruzione d’una tradizione culturale, quella grande tradizione che ci avevano lasciato in eredità i nostri progenitori. Quest’era si è consumata nel corso del Novecento, il secolo delle ideologie distruttive che gli avvenimenti storici per fortuna hanno demolito, ma le cui scorie circolano ancora tra noi col nichilismo che esse diffondono nelle coscienze e che, per l’appunto, creano quel sentimento di abulia e rassegnazione che deriva dalla sensazione che tutto ormai sia stato detto e fatto e che, quindi, l’orizzonte sia vuoto. Si tratta, insomma, di dare una svolta al nostro modo di concepire l’esistenza, di recuperare un nuovo senso della vita e della storia che si ricolleghi innanzitutto alla nostra grande tradizione e di riprendere il cammino verso nuovi orizzonti, più pieni di significato e, soprattutto, di speranza nel futuro. Probabilmente molti di noi sono ormai consapevoli di questo e, coloro che intendono dedicarsi alle arti, sono già impegnati nella ricerca di nuove forme d’espressione che vogliano ri-stabilire una autentica comunicazione col pubblico, recuperando le tecniche e gli insegnamenti che ci avevano lasciato in eredità i nostri progenitori. Personalmente sono convinto che gli esseri umani non smetteranno mai di esprimere la propria visione del mondo attraverso la narrazione e la raffigurazione della vita a dispetto di tutti coloro che pensano che non ci sia più nulla da dire e che l’incomunicabilità si sia insediata per sempre nello spirito dell’uomo, perché comunicare coi propri simili è un istinto insopprimibile dell’animo umano, che durerà fin che durerà la nostra specie. Dunque, chi ha coraggio e talento si faccia avanti, e si dia da fare.
Dionisio di Francescantonio

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