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Quarto potere |
Eppure, nonostante le limitazioni
e i condizionamenti incontrati, Welles ha realizzato alcuni dei film più
memorabili della storia del cinema, pieni di
intuizioni geniali, di innovazioni tecniche nel linguaggio filmico, con
un uso inedito della cinepresa e degli obiettivi in funzione espressiva (fu uno
dei primi cineasti ad usare il grandangolare) che gli permetteva di ottenere
spesso una resa drammatica di potenza quasi ipnotica. La sua genialità si svelò
precocemente quando, ancora ragazzo, fu scritturato come attore nelle più
importanti compagnie di teatro di prosa di New York e di Chicago, giungendo
presto a realizzare proprie regie di opere di Shakespeare. Lavorò anche alla
radio, in trasmissioni che rivelarono la sua straordinaria capacità
d’impadronirsi di questo strumento mediatico per esprimere le sue grandi doti
drammatiche, al punto che, il 30 ottobre 1938, quando aveva appena ventitré
anni, simulando un’invasione marziana tratta da La guerra dei mondi di H. G. Wells, fu talmente convincente da
scatenare il panico degli ascoltatori lungo tutta la costa atlantica. Grazie
alla notorietà derivatagli da questa eccezionale performance, poté girare il suo primo film, Quarto potere, terminato nel 1941, un’opera che ha rivoluzionato la
struttura del film per la tecnica e per lo stile narrativo, introducendo un uso
inedito del piano-sequenza, del taglio delle inquadrature e del “gioco” della
profondità di campo, con angoli visuali deformati dalle riprese dall’alto o dal
basso e con insistiti primi piani degli interpreti, in cui, attraverso la
parabola di un magnate monopolista dell’informazione, Charles Foster Kane, si
evidenziano i vizi e le storture del potere, dominato dal narcisismo
superomistico e dal feticismo distruttivo del denaro. Era un capolavoro, ma
quando uscì non ebbe successo, il giudizio dei critici apparve diviso ma,
soprattutto, sconcertò i finanziatori del film, da cui ebbe inizio il
persistente contrasto di Welles con la produzione hollywoodiana.
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Quarto potere |
Nel 1942 lavorò alla gestazione
di Terrore sul Mar Nero, un film
interpretato dal suo amico Joseph Cotten (che collaborò con lui alla sceneggiatura),
ma la regia venne affidata a N. Foster per l’improvviso disinteresse di Welles.
Si dedicò invece alla realizzazione di L’orgoglio
degli Amberson, fortemente contrastato dalla produzione che lo costrinse a
rimontare il film e ad apportarvi numerosi tagli, tanto che lo stesso regista
finì per disinteressarsi del destino dell’opera. Anche il film seguente, Lo straniero, del 1946, venne stravolto
dalla produzione, soprattutto nel finale, portando l’autore a disconoscerlo. Il
film, come appare ancora oggi, conserva comunque il tocco geniale del regista,
laddove restituisce magistralmente l’ambiguità e lo sdoppiamento psichico di un
ex criminale nazista che è riuscito a ricostruirsi l’esistenza d’un uomo ammodo
e stimato, trovando anche l’amore d’una donna, ma che viene assalito dalla
frenesia di uccidere allorché la sua nuova vita appare minacciata dal
sopraggiungere d’un ex compagno di crimini e d’un investigatore che, sulle
tracce del suo vecchio compagno, potrebbe smascherarlo.
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Lo straniero |
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La donna di Shanghai |
Finalmente, nel 1948, Welles
riesce a girare un film perfettamente compiuto, denso di intuizioni geniali e
non privo di riferimenti autobiografici. E’ La
signora di Shanghai, con Rita Hayworth, sua moglie e diva allora assai
celebrata, la cui presenza gli garantì, forse, la benevolenza dei produttori,
ma con la quale il regista era in procinto di divorziare, tant’è vero che alla
bellissima attrice dalla folta chioma color rame, qui con un’inedita pettinatura
bionda che ne sminuisce un poco il fascino, affidò la parte d’una dark lady
restituita a tinte fosche nella storia d’un marinaio interpretato dallo stesso
Welles, raggirato dal marito zoppo della donna ma anche da lei, in un ambiguo
gioco delle parti che vorrebbe coinvolgerlo in un omicidio dopo averlo assunto
quale capitano dello yacht dei due coniugi per una crociera in mare: omicidio
del marito voluto dalla donna, di quello della moglie voluto dall’uomo. Il
marinaio riesce a sottrarsi in tempo al raggiro, soprattutto a quello, più insidioso, della
donna, il cui scopo è di irretirlo con la seduzione per essere
aiutata a impadronirsi del cospicuo patrimonio del marito. Il film si chiude
con la stupenda sequenza della sala degli specchi, dove i due coniugi, riflessi
più volte in punti diversi della sala, si sparano ripetutamente con furia
ossessiva, trovando entrambi la morte, mentre il marinaio Welles assiste al
massacro con cinica e amara ironia.
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La sequenza degli specchi: la signora, colpita, muore davanti al marinaio |
Nello stesso anno gira
Macbeth, uno dei capolavori shakespeariani che aveva già messo in
scena a teatro, in cui enfatizza le atmosfere cupe accentuando il contrasto tra
il bianco e nero e utilizzando lenti deformanti in funzione scenografica. Il
film ha un carattere fortemente espressionista, con un montaggio
contrappuntistico che suggerisce più piani d’azione paralleli, un’assoluta
novità stilistica che spiazza la critica e che decreta il suo fallimento
commerciale. Da questo momento, i produttori di Hollywood non scommetteranno
più un dollaro su Orson Welles ed egli dovrà combattere per il resto della sua
vita con i problemi della produzione.
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Macbeth |
Ha in serbo la realizzazione d’un altro
progetto shakespeariano, Otello, ma
per finanziarlo si impegna in quel tour
de force di recitazione in film d’altri autori a cui dovrà sottoporsi
sempre più spesso. Girerà il suo film nelle pause che gli consentono il lavoro
da attore, in un continuo spostamento dell’azione che ambienterà via via in
Marocco, a Roma, a Perugia, a Viterbo e a Venezia. Solo nel 1952 Othello è finito, giusto in tempo per
essere proiettato al festival di Cannes e conquistare il premio per il miglior
film. Finalmente un riconoscimento ufficiale che il regista statunitense, però,
ottiene in Europa, più ricettiva, forse, alle novità del suo cinema di quanto
avvenga in patria. Infatti, ancora una volta, Welles stupisce per le sue
innovazioni tecniche, soprattutto per il montaggio che lo accosta al miglior
Ejzenstejn, il regista russo autore di Ivan
il terribile la cui lezione estetica appare nel film di Wells attualizzata
e rivisitata in potenza espressiva. Già nel Macbeth
si avvertiva l’eco dell’espressionismo ejzeinstejniano, ma in Othello assume una cifra visionaria e
apocalittica, riassunta nella scena del funerale che apre e chiude il film con
una lunga teoria di figure in controluce che scortano i feretri di Otello e
Desdemona al canto ieratico e potente del Dies
Irae.
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Otello |
Passeranno tre anni prima che
Welles riesca a realizzare un nuovo film, Rapporto
confidenziale (ma il titolo originale è Mister
Arkadin), che si configura come una crudele allegoria del potere. Il
rapporto confidenziale è quello che dovrà redigere per Arkadin (un magnate
della finanza con un passato da occultare, poiché il suo ingente patrimonio deriva da
quella che una volta si chiamava tratta delle bianche) un giornalistucolo di
nome Van Stratten, chiamato a svolgere un’inchiesta riservata per conto del
finanziere che denuncia un fastidioso blocco di memoria. In realtà lo scopo
dell’inchiesta è quello di portare il finto smemorato sulle tracce di coloro
che lo hanno fiancheggiato nei suoi traffici per poterli eliminare. Van
Stratten, però, davanti ai cadaveri che costellano il procedere della sua
indagine, scopre il vero scopo del suo incarico e, prima di eclissarsi, svela
alla figlia di Arkadin che razza di individuo sia il padre. Costui, non
sopportando che la figlia abbia saputo del suo losco passato, sale sul proprio
aereo personale per portarlo a schiantarsi al suolo. Ma il corpo dell’uomo non
viene ritrovato tra i resti dell’aereo. E’ morto davvero o ha solo voluto farlo
credere? Welles lascia l’interrogativo irrisolto, come a suggerire che per quel
tipo d’uomo che ha messo in cima a tutto il potere e la ricchezza, valori per i
quali si è arrogato il diritto di porsi al di là del bene e del male, non può
bastare la perdita dell’amore d’una figlia per convincerlo a sparire di scena
definitivamente.
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Rapporto confidenziale |
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L'infernale Quinlan |
La figura di Arkadin, così come la interpreta lo stesso Welles,
ha qualcosa di demoniaco e di magnetico. Spesso inquadrato dal basso, giganteggia
su una galleria di comprimari grotteschi in un’aura di dispotismo carico di
crudeltà e doppiezza. Va sottolineata, a questo punto, un’altra dote
straordinaria di Welles: quella di saper incarnare anche fisicamente il tipo di
personaggio che interpreta. Già nel Macbeth il suo volto appare quasi
irriconoscibile nell’aria allucinata e schizofrenica con cui lo caratterizza;
in Arkadin assume fattezze quasi diaboliche; ma l’effetto più sorprendente lo
ottiene nel film che realizzerà dopo Rapporto
Confidenziale, quell’Infernale
Quinlan dove, interpretando la figura del poliziotto corrotto che
rappresenta una metafora nichilistica del potere degenerato, sfrutta
addirittura la sua crescente tendenza ad ingrassare per accentuare i connotati
laidi e ripugnanti del personaggio, pronto a commettere ogni bassezza pur di
esercitare la sua volontà di potenza. Il film, girato nel 1958, è un altro
capolavoro, dove, tra l’altro, si assiste ad ulteriori innovazioni tecniche,
come i primi tre minuti d’apertura girati senza tagli, con un unico
piano-sequenza in cui viene presentato l’antefatto della vicenda (la
sistemazione della dinamite in un’auto destinata ad esplodere) e tutti i
personaggi principali del film; un espediente tecnico, questo, divenuto un
paradigma del cinema moderno ma che nessuno ha saputo ripetere con la stessa
maestria di Welles.
Successivamente, tra tentativi
abortiti e incompiuti, tra cui il Don
Chisciotte che prometteva d’essere un ennesimo capolavoro e che resterà
forse il rimpianto più grande del regista, Welles traduce per lo schermo una
delle opere cruciali della letteratura del Novecento, Il processo di Kafka. Il film, realizzato nel 1962, mette in
rilievo il lato assurdo e crudele della macchina del potere attraverso
un’allucinante sequenza di situazioni paradossali e angoscianti. E’ un’opera
claustrofobica, fortemente inquietante, che trasmette un senso continuo di allarme
e timore. Qui, forse, Welles calca la mano più del dovuto, al punto da suscitare
un sospetto di formalismo. Ciò nonostante il film porta in ogni caso il sigillo
del genio, e molte sequenze restano memorabili.
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Il processo |
Tutto il contrario avviene nel
film successivo, Falstaff, girato da
Welles ben quattro anni dopo, nel 1966. Falstaff
è una sorta di divertissement
condotto su un tono brioso e buffonesco, al centro del quale agisce il
personaggio di Falstaff, principe del lazzo e della burla, parlatore
instancabile non privo di raffinatezze verbali che riassume, in chiave
clownesca, il mondo di Shakespeare, vecchia e tenace passione di Orson Welles.
Qui, contrariamente ad altri film, Welles fa della sua grassezza un motivo di
simpatia e gaiezza, dietro cui, però, l’osservatore attento intuisce una
sfumatura di malinconia, forse dettata dalla consapevolezza della fine della
giovinezza e dello spettro ormai incombente della vecchiaia.
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Falstaff |
Resta da parlare dell’ultima
opera che, dopo ulteriori tentativi e fallimenti intercorsi, Welles riuscì a
girare, F come Falso, ormai nel 1974.
Il film è una sorta di riflessione sull’arte e la vita, dove i confini tra vero
e falso si intersecano e si annullano a vicenda. Welles, sia pure in tono
leggero, ci avverte che l’arte è finzione, ma il cinema lo è più d’ogni altra
forma. E il regista non è altro che un illusionista che compie dei giochi di
prestigio davanti ai quali gli spettatori spalancano gli occhi come fanciulli
incantati. Questa sarà l’ultima opera portata a compimento da Welles. Non
riuscirà a realizzare altro, a parte un documentario, Filming Othello, costruito con materiale riportato durante le
riprese del film del 1952. Morirà nel 1978 mentre era intento a scrivere
l’ennesima sceneggiatura di un film che non potrà realizzare.
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F come Falso |
Dionisio di Francescantonio