Con ogni probabilità la definizione
pop art fu coniata in Inghilterra, alla fine degli anni Cinquanta del secolo
scorso, da Lawrence Alloway, un critico d’arte autore di molte recensioni che,
più tardi, troviamo a New York fortemente impegnato nel lanciare giovani
“artisti” pop. Già il pur facile accostamento dell’arte all’aggettivo popolare
(pop infatti allude in qualche modo al vocabolo popolare) dovrebbe indurci a qualche utile riflessione. Potrebbe trattarsi
dell’espressione di soggetti rozzi e privi di ingegno appartenenti alle classi
meno abbienti, oppure dell’arte prediletta dal popolo. Ma, in questo caso, non
si capirebbe come mai proprio il popolo per lungo tempo fu la classe sociale
più ostile e diffidente verso l’esposizione in spazi imponenti e spesso prestigiosi
di bidoni di spazzatura firmati, tubi serpentinati al neon e immagini seriali
di nessun significato. In realtà si tratta della presunta arte che un piccolo
numero di personaggi facenti capo ad una potente setta capace di condizionare il pensiero e quindi
il comportamento umano in tutti i campi ha destinato al popolo. A tutto il popolo. Infatti, ancor più
degli equivoci ascrivibili all’informale, all’astratto e al concettuale, i
bidoni di spazzatura, i tubi al neon e le immagini seriali, ben lungi
dall’esprimere, come pretenderebbero schiere di entusiastici recensori, una
“critica alla società dei consumi”, hanno l’unico scopo di confondere e
deprimere la percezione estetica collettiva e fanno parte della stessa tecnica
usata in tutti gli altri settori da chi tende ad acquisire il potere demolendo
i fondamenti della nostra società, e trasformando le popolazioni in masse di
bruti facilmente manipolabili. Un percorso all’indietro che, per l’appunto,
diventa possibile solo nel momento in cui viene meno l’ordine che discende dall’esistenza
delle categorie del bene e del male, del bello e del brutto, del sano e del
patologico a cui per secoli e secoli la nostra civiltà aveva sempre fatto
riferimento. E, nel contempo, costituiscono il mezzo con cui i furbi e gli
arroganti, ben inseriti nel sistema, misurano la loro capacità di catturare con
ogni mezzo l’attenzione del prossimo o di provocarne una qualsiasi reazione, non importa se di disorientamento o
di rifiuto, per ottenere, grazie all’alta visibilità conseguente, grossi
introiti economici in cambio di poco o niente: le “opere” uniche vendute ai
borghesi danarosi, inebetiti dai cataloghi che valorizzano il pattume con
parole incomprensibili e a tutti gli altri, che si portano a casa la paccottiglia
riprodotta in serie a medio o a basso prezzo, dalla quale, grazie alla facilità
di riproduzione in grandi quantità che consente la tecnica moderna, si possono
ugualmente ricavare cifre stratosferiche.
Insensato, come ho già detto, sarebbe dedicare
altro tempo prezioso alla memorizzazione e all’analisi della miriade di nomi e
di “opere” di tanti pretesi artisti del pop. Per il nostro scopo, che resta
quello di porre fine a una delle tante imposture e quindi propiziare l’avvento
di una nuova stagione, basterà la divulgazione della biografia di Andy Warhol,
quella vera, non inventata da biografi falsi o prezzolati. In questa sede
possiamo solo mettere in evidenza il collegamento che esiste tra l’irrompere
sulla scena di questo modesto grafico pubblicitario, bilioso e paranoico, e il
nichilismo pratico oggi dilagante in cui hanno finito per sciogliersi tutte le
ideologie del Novecento. Potendo disporre, finalmente, di adeguati strumenti di
analisi, risulterà evidente a chiunque come l’ascesa del figlio di emigranti slovacchi a cui
continuano a rifarsi le torme di imbrattatori che ancora ci tormentano con i
loro ignobili scarabocchi, non fu dovuta né a un inesistente talento ribelle né
alla forza di volontà di una madre frustata e ambiziosa, ma all’occhio acuto di
chi già negli anni Cinquanta cercava il matto giusto per promuovere la pazzia
collettiva e l’uso generalizzato della droga, consapevole di quanto sia facile esercitare
tutto il potere su un popolo debole di mente e incapace di scegliere, e sul
quale si può riversare qualunque porcheria.
Ed è proprio alla necessità di perpetuare questo genere di potere totale
e perverso che va ricondotta una circostanza che dovrebbe invece far riflettere:
all’immediata e praticamente universale riconoscibilità del sembiante di Andy
Warhol e di molte delle “opere” a lui attribuite, corrisponde, come più sopra è
stato detto, una conoscenza assai approssimativa per non dire assolutamente
vaga di quella che fu in realtà la sua vita, proprio come se qualcuno avesse
provveduto a far silenziare i non pochi testimoni oculari delle innumerevoli
ignominie ascrivibili al più falso e ingannevole dei miti. Per esempio chi, tra
i tanti cultori del bislacco personaggio, si è preso la briga di raccontarci
quanto avveniva sotto la sua esclusiva regia nella mitica Factory da lui
fondata?
Arrampicatore sociale, abile come pochi, Andy era riuscito in giovane
età a emergere dall’anonimato diventando l’amante di Truman Capote, il più famoso scrittore omosessuale statunitense dei
primi anni Cinquanta: una formula abbastanza scontata per raggiungere la
notorietà passando dalla porta di servizio che egli, pubblicitario per
formazione, una volta diventato famoso, decise di vendere alle torme di giovani
che sgomitavano per godere dei benefici che immaginavano di poter ottenere
entrando nella sua orbita. Egli, infatti, prometteva a tutti “un quarto d’ora
di celebrità” in cambio di un pegno che si riservava di esigere e che quasi sempre consisteva nello sfruttamento
del loro corpo o del loro talento. Ma siccome l’avidità e la mancanza di scrupoli,
in definitiva, non erano i peggiori elementi della sua natura assolutamente crudele
e negativa, spesso il prezzo per non uscire dal cerchio di luce che egli era in
grado di accordare saliva a dismisura e molti dei giovani irretiti dalla sua
algida personalità e ancor più dalle droghe che nella Factory non mancavano
mai, finivano per perdere la salute fisica assieme a quella mentale e, non di
rado, anche la loro stessa vita. Mentre lui, cinico e perfettamente lucido (in
quanto non personalmente dedito alla droga) era sempre lì, con in mano l’immancabile cinepresa, per filmarne l’abbrutimento derivante dalla
decadenza fisica, le indicibili umiliazioni e perfino il momento estremo del
trapasso che a volte avveniva a seguito di sfinimento fisico per assunzione di
droghe e altro genere di veleni o per via del suicidio, a cui egli stesso aveva
indotto il disgraziato di turno. Perchè la morte e il dolore degli altri lo affascinavano,
quietavano, almeno per un po’, la sua invidia congenita in quanto lo risarcivano
di quell’aspetto cimiteriale che la natura gli aveva dato e che risultava a lui
stesso sgradevole.
Cominciare a far luce su tante realtà
occultate è il presupposto indispensabile per far saltare il paraocchi che ancora oggi impedisce ai più di
scorgere l’abisso verso il quale sono tuttora orientate quasi tutte le
espressioni della nostra vita. Finalmente liberato il campo dai condizionamenti
“anti-tutto” e dai pregiudizi verso le rare voci che nel corso del tempo hanno
cercato, sempre invano, di indicare i luoghi del pensiero in cui erano state prefigurate
tutte le tappe di questo lungo cammino di demolizione di tutte le basi della
crescita individuale e di una convivenza collettiva impostata sulla ricerca
dell’armonia, sarà finalmente possibile capire quanto, in realtà, sarebbe stato
facile evitare le infinite e multiformi trappole mortali disseminate in ogni
angolo e lungo tutte le strade percorse da almeno due o tre delle ultime
generazioni.
Restando nel campo dell’arte e a mero
titolo di esempio, basterà porre attenzione al significato letterale dei punti
programmatici del manifesto “dada”. Nato a Zurigo negli anni dieci del
Novecento, il dadaismo è la corrente di pensiero a cui, a pieno titolo, può
essere ricondotta la pop art e il fenomeno Andy Warhol. Nulla può essere più
chiaro delle parole d’ordine contenute in questo proclama la cui attuazione,
come appare evidente, al di là della pretesa (in verità già di per sé insensata)
di rifiutare la tradizione in tutti i campi, a partire da quello artistico, non
avrebbe portato alla libertà di espressione bensì all’ospedale psichiatrico.
Che in seguito e sicuramente non per caso
è stato abolito. Recita il manifesto:
1) Per lanciare un manifesto bisogna
volere A,B,C; scagliare invettive contro 1,2,3; eccitarsi e aguzzare le ali per
conquistare e diffondere grandi e piccole a,b,c;
2) Firmare, gridare, bestemmiare,
imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile,
dimostrare il proprio non plus ultra, sostenendo che la novità somiglia alla
vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di
Dio;
3) Con il manifesto dada non si
persegue nulla; chi scrive il manifesto è per principio contro i manifesti. E’
anche contro tutti i principi. Lo scopo è quello che si possono fare
contemporaneamente azioni contraddittorie in un unico refrigerante respiro;
4) Si è in favore della contraddizione
continua;
5) Dada non significa nulla;
6) Non si ritiene di dover dare
spiegazioni.
Utile fermare l’attenzione sui primi
due punti. Essi delineano chiaramente il modello di comportamento abituale con
cui ancora oggi si tenta di ridurre al
silenzio coloro che propongono una chiave di lettura diversa rispetto a quella
corrente o offrono un pensiero finalmente rigenerativo.
Articolo di Miriam Pastorino
Articolo di Miriam Pastorino
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