Questo senso d'inutilità o
d’impotenza si traduce in angoscia, com’è ovvio, ma un’angoscia di fronte alla
quale conviene reagire facendo spallucce e fingendo noncuranza, magari anche
una certa dose d’irrisione. Un atteggiamento, questo di Landolfi, che ha avuto
una duplice conseguenza sulla sua produzione, riverberandosi sia nel modo
particolare di raccontare ch’egli ha sviluppato, sia nel suo rifiuto d’impegnarsi
in un’opera di grande respiro come il romanzo. Egli ha infatti scritto solo
racconti e prose varie; anche dove il
numero delle pagine supera il centinaio (come in Racconto d’autunno), l’ispirazione e il tono restano pur sempre
confinati nella dimensione del racconto. Ma è soprattutto nello stile che vien
fuori quel tono particolare di distacco che denota il suo scetticismo e, si
sarebbe tentati di pensare, quella sorta d’insicurezza verso il proprio
scrivere, se non fosse per il virtuosismo della scrittura, derivante da una
conoscenza della lingua italiana talmente cospicua da poterne disporre
con abilità e creatività inesauribili. Ma si tratta d’uno stile che sembra
voglia ricalcare quello d’un altro, come se l’autore non si fidasse della
propria voce e avesse bisogno, per esprimersi, di affidarsi (più esattamente, di
fingere d’affidarsi) a quella d’un
altro. Non siamo quindi sul terreno della parodia d’altri autori, ma su quello
della finzione della parodia di
autori, che solo vagamente ci rimandano a Gogol, a Puskin, a Cechov, a
Dostojevskij, a Hofmann, a Edgar Allan Poe, a Kafka, a Stevenson (tutti
autori che Landolfi conosceva bene e dei quali spesso tradusse l’opera in
italiano). In altre parole, Landolfi, per vincere il suo scetticismo nei
confronti della letteratura, ha bisogno, per esercitarla, d’indossare una
maschera. Da autore pienamente immerso nella modernità, soffre, insomma, di
quella perdita di fiducia nei confronti della narrazione tradizionale come
strumento adatto ad esprimere la complessità (o meglio, nel suo caso, l’ambiguità,
l’inafferrabilità) dell’esistenza; un po’ come fa Borges, altro narratore
caratterizzato da scetticismo verso il proprio strumento e che, nei suoi
racconti, s’inventa addirittura l’artificio di far recensire libri immaginari
da autori inesistenti.
Scrittore originale e anomalo, dunque, che
proprio nella patina d’antico di cui si riveste spesso la sua prosa, e nell’uso
insistito di vocaboli inattuali, sempre però in chiave ironica e, qui sì,
parodistica, e attraverso cui denuncia proprio la diffidenza nei confronti della
lingua ormai logorata dall’uso e ricoperta dalla polvere del tempo (cosa che ha
indotto taluni critici del passato a definirlo erroneamente un “eccentrico
ottocentista”) dimostra la sua modernità e attualità. Ma scrittore anomalo
soprattutto per il suo rifiuto di concedersi al grande pubblico. Come ha
scritto il critico Carlo Bo, occorre, per capirlo, valutare “il dato della sua purezza, della sua
impossibilità di confondersi nella storia o soltanto col suo tempo. Criterio
che vale per le sue letture, per i suoi scrittori-modello, per la sua retorica
che non si è mai accostata agli ismi del tempo, alle mode, alle leggi della
tribù… E’ stato il vero solitario della letteratura del nostro Novecento, un
solitario cosciente, un volontario dell’isolamento assoluto”. Moravia, suo
contemporaneo e scrittore mondano per
eccellenza, poteva dire di lui con sufficienza che non otteneva il successo
perché conduceva vita troppo appartata. Ma oggi chi ha voglia di rileggere
quello che ha scritto Moravia? Mentre la scrittura di Landolfi continua ad
attrarre e affascinare chi, nella letteratura, cerca quel piacere
insostituibile che ci introduce in un mondo insolito e sorprendente dove
tuttavia riconosciamo quella parte di noi stessi che giace nelle fessure del
nostro io meno esposto, senza contare il piacere di assaporare una prosa ricca
e preziosa che ha il potere di inchiodarti alla pagina. Certo, questo volersene
stare appartato, probabilmente per non confondersi con la schiera di scriventi
ideologizzati che ha popolato il nostro Novecento, è costato caro a Landolfi,
un grande scrittore che ha sempre avuto pochissimi lettori. Ci ha provato Italo
Calvino a conquistargli un po’ di lettori curando e pubblicando per Rizzoli,
nell’ormai lontano 1982 (Landolfi era morto nel 1979 e in vita aveva pubblicato
solo presso Vallecchi, casa editrice marginale e ormai scomparsa), un’antologia
dei suoi racconti, Le più belle pagine di
Tommaso Landolfi. Ma, come rilevava Carlo Bo nell’introduzione ai Tre racconti, un volumetto ripubblicato sempre
da Rizzoli nel 1990, Calvino non era riuscito a rovesciare la condizione di scrittore senza lettori di Landolfi. Da
qualche anno in qua ha ripreso a pubblicare le sue opere
l’editore Adelphi, ma c’è da dubitare che questo lavoro encomiabile abbia
conquistato a Landolfi un vasto pubblico di lettori; almeno in Italia, paese
tuttora afflitto da troppi scriventi privi di talento e altrettanti critici
ideologizzati, perché all’estero si sono accorti di lui e hanno cominciato a
tradurlo. Perfino un critico esigente e dal palato fine come l’americano Harold
Bloom, recentemente scomparso, lo inserisce, unico italiano insieme a Calvino,
in una scelta compiuta tra Ottocento e Novecento di autori di racconti d’ogni
nazionalità per insegnare a Come si legge
un libro (titolo d’un saggio pubblicato nel 2000).
Senza dubbio c’è il Landolfi meno ispirato,
la cui produzione soffre talvolta eccessivamente della sua – come dire – non
completa convinzione rispetto allo scrivere, inteso come gioco futile, sperpero
di capacità preziose gettate troppo facilmente al vento e disperse come fumo.
E’ questo che può indurre il lettore alla diffidenza e al rifiuto. Ma nei suoi
momenti migliori egli è capace di scandagliare magistralmente le zone ai margini
tra il notturno e il diurno e, addentrandosi nei meandri occulti dell’essere
umano, creare una sorta di specchio deformante del suo animo per meglio
delinearne i guasti e mostrarci quindi l’uomo contemporaneo in tutta la sua
patetica e ormai patologica insufficienza umana. Cito, per brevità, solo un racconto, La moglie di Gogol, dove questo
risultato raggiunge vette di verità profonda, pur risolto nel suo registro
grottesco che non esclude il divertissement,
naturalmente sempre di carattere colto e raffinato, immancabile in Landolfi.
La moglie di Gogol
(novella che avrebbero potuto concepire Kafka e Borges) è raccontata da un
immaginario biografo dello scrittore russo. E chi meglio di Landolfi, che ne
aveva tradotto l’opera intera e sapeva tutto della sua vita, poteva arrogarsi
il diritto di parlare della sua moglie segreta? Gogol, nella realtà, non si era
sposato mai, soffriva di depressioni e crisi mistiche e si lasciò addirittura
morire d’inedia a quarantatré anni dopo aver bruciato i suoi ultimi
manoscritti. Il Gogol di Landolfi sposa invece un pallone gonfiabile in
sembianze di donna, che assume forme e dimensioni diverse a seconda dei
capricci del marito. L’uomo, pur pazzo d’amore per la moglie, vuole possederla
nelle più differenti sembianze e, indubbiamente perché sedotto da un’idea
esotica e oscura del femminino, la chiama Caracas come la capitale del
Venezuela, quanto di più lontano insomma da un abitante delle gelide pianure
della grande Russia. Il rapporto, pur percorso da improvvise folate di gelosia
da parte dell’uomo, va avanti nella passione più accesa, finché Gogol si ammala
di sifilide, malattia di cui incolpa ingiustamente la consorte. La accusa
perciò apertamente di tradimento, quindi di egoismo e di frigidità sessuale,
tanto che lei, vinta dall’amarezza, si rifugia in uno zelo religioso quasi
maniacale. Alla fine Gogol, mentre è intento a modellare la moglie in una nuova
forma, soffia troppa aria dentro al pallone e lo fa scoppiare. Il gesto viene
compiuto in preda alla collera, sconsideratamente e, quando lo scrittore vede i
resti della bambola sparpagliati dappertutto, si pente e piange amaramente. Ma
poi raccoglie i pezzi e li brucia nel caminetto, così come, nella realtà, ha
bruciato le sue opere inedite. Dopo la catastrofica conclusione di questo
rapporto, il biografo si preoccupa di difendere pietosamente il protagonista
dall’accusa di percosse verso la moglie, mossagli da alcuni male informati, e
rende l’ultimo omaggio al genio
dell’infelice scrittore.
Dionisio di Francescantonio
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