sabato 1 settembre 2012

LA SCRITTURA POLIFONICA DI WILLIAM FAULKNER (segue)



Si sente spesso affermare che Faulkner discende dalla tradizione sperimentale di scrittori europei di tecnica sopraffina come James Joyce, Virginia Woolf e, per la complessità del periodare, Marcel Proust; e si capisce perché, in quanto è evidente che questi scrittori il nostro autore li ha letti attentamente e ne ha assimilato fino in fondo i modi e la perizia; ma, ciononostante, nella sua scrittura si sente una spontaneità infinitamente maggiore dei suoi modelli, una spontaneità per certi versi popolare e istintiva, quella d’un narratore di storie dotato naturalmente d’una capacità affabulatoria così straripante e incontenibile da costringerlo a inserire nel suo narrare tutte le divagazioni, le variazioni e le parentesi che la vena gli suggerisce. In questa tendenza, che è popolare e colta al tempo stesso, risiede per l’appunto l’originalità e la grandezza di Faulkner; addirittura, se vogliamo, il suo limite, giacché quel rischio di impantanarsi nella complessità del suo stile a volte lo corre lui stesso, quando l’ispirazione cede per un momento e il lettore avverte come un ansare del linguaggio, un capzioso girare attorno all’argomento come accade al raccontatore che si sia lasciato troppo trasportare dal suo estro e rischi di smarrire il filo principale del discorso. Ma sono solo attimi, brevi lacune di chi è costretto a padroneggiare una capacità oratoria torrenziale e debordante e di cui comunque non perde mai del tutto la padronanza; in certi casi, addirittura, riesce a trarsi fuor dalle secche con una trovata tecnicamente geniale, come quando, resosi conto d’essersi lasciato trasportare troppo avanti nella presentazione d’un personaggio o d’un fatto, smette la narrazione e, senza mettere il punto, va a capo e la riprende, omettendo la maiuscola, dal momento in cui l’ha cominciata (si veda, per esempio, la prima pagina del racconto Fu, incluso nel volume Scendi Mosé). Il che, sia detto per inciso, è il modo migliore di far uso dello sperimentalismo, quello efficace e funzionale alla comprensibilità del racconto, non come è stato spesso applicato nel Novecento da parte di tanti scrittori, in maniera gratuita e poco utile, quando non addirittura incomprensibile.
Ma lo stile di Faulkner è degno di nota soprattutto se lo si considera in rapporto alla letteratura americana, contraddistinta per lo più da una cifra asciutta e minimalista, a parte quella di alcuni scrittori come Herman Melville, per l’afflato epico che la contraddistingue, e quella di Henry James per la sua eleganza e complessità, che però ha trovato il proprio terreno di sviluppo in una lunga permanenza in Europa. Faulkner, in verità, è un caso più unico che raro nell’ambito della letteratura americana. Almeno per la scrittura, egli sembra appartenere più alla cultura europea che a quella americana. Forse perché nato nel Mississippi, in uno di quegli stati del sud che fu a lungo sotto il dominio della Francia prima che la sostituisse l’Inghilterra, sembra abbia assorbito in profondità la ricchezza e raffinatezza della cultura francese sette-ottocentesca, pur restando, nell’indole e nella mentalità, profondamente americano. Del resto conosceva così bene il francese che fu lui stesso a collaborare minuziosamente alla traduzione in quella lingua de L’Urlo e il Furore, uno dei suoi libri stilisticamente più complessi. E poi era cresciuto alternando alle letture d’autori di lingua inglese – Shakespeare, Conrad, Eliot, Keats e, appunto, Joyce e la Woolf – molte altre d’autori di lingua francese, come Rabelais, Moliére, Balzac, Baudelaire e Proust, con altri meno famosi. Conosceva, peraltro, anche i classici, Omero anzitutto, come si evince da un passo di quello stupendo racconto intitolato L’orso (incluso anch’esso in Scendi Mosé),  che narra di una lunga caccia “nella terra in cui il vecchio orso si era guadagnato un nome (Old Ben) e attraverso la quale correva neppure come una bestia mortale ma come un anacronismo indomabile e invincibile sgorgato fuori da un tempo antico e sepolto, un fantasma, un’epitome e un’apoteosi della antica vita selvaggia su cui si avventavano per demolirla a piccoli colpi in una furia di avversione i piccoli e meschini esseri umani simili a pigmei intorno ai malleoli di un elefante assopito: il vecchio orso solitario, indomabile e solo, rimasto vedovo, senza figli e assolto dalla mortalità: vecchio Priamo orbato della vecchia moglie  e sopravvissuto a tutti i suoi figli”.
 Abbiamo letto un bell’esempio della prosa di Faulkner. Ho detto anche dell’acutezza psicologica con cui i personaggi si stagliano sulla sua pagina. Sentite come descrive un capo indiano che si presenta davanti al Presidente degli Stati Uniti in persona per ottenere il suo giudizio in un complicato affare d’omicidio, commesso non si sa quanto intenzionalmente dal nipote a danno di un uomo bianco durante una corsa a cavallo organizzata presso il guado di un fiume (il racconto, d’epoca e ambientazione che possiamo definire western, si intitola appunto Il Guado e figura nel volume I Negri e gli Indiani pubblicato anni fa per i tipi della Mondadori) : “E ora il Presidente e il segretario sedevano dietro al tavolo sgombro e guardavano l’uomo che stava ritto e come incorniciato dalle porte aperte dalle quali era entrato, tenendo il nipote per mano come uno zio che per la prima volta conduca un giovane parente provinciale in un museo cittadino di figure di cera. Immobili, essi contemplavano il molle uomo panciuto che stava davanti a loro con la sua molle, gentile faccia ermetica… il lungo naso da monaco, le palpebre sonnolente, il doppio mento cascante, color caffellatte, emergente da uno spumeggiar di merletto sudicio di un’eleganza da cinquant’anni superata e svanita; la bocca era piena, piccola e molto rossa. Eppure dietro all’espressione del volto flaccido e greve di delusione, come dietro alla voce gentile e a quella leziosità quasi femminile, in qualche punto s’annidava qualcos’altro: qualcosa d’ostinato, d’astuto, d'imprevedibile e dispotico.”
    Sono solo alcuni personaggi di quella vastissima e fascinosa commedia umana che si sviluppa nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha del Mississippi, che significa grosso modo “Terra spaccata”, lo  spazio mitico dominato dal conflitto tra le razze bianca nera e indiana, tra il passato e il presente e tra il bene e il male, illustrato da Faulkner attraverso le saghe familiari dei Sartoris, degli Snopes e dei Compson e  che si traduce in numerosi volumi, tra cui Santuario, L’urlo e il Furore, Non si fruga nella polvere, Assalonne Assalonne!, Gli invitti, Luce d’agosto, Mentre morivo, Il Borgo, Requiem per una monaca. Faulkner è uno degli scrittori più importanti del Novecento, della cui grandezza il mondo letterario, ancor oggi, non è forse del tutto consapevole e il cui valore, beninteso, non è solo di carattere estetico. La sua arte ha una valenza universale che investe i grandi temi dell’umanità, ma che l’attuale miopia del mondo letterario accademico tende a disconoscere e a minimizzare.  Addirittura certa critica americana, quella più politically correct, cerca di ridurlo al ruolo edificante e consolatorio del difensore dei vinti della storia americana, del Sud piegato e asservito agli yankee del Nord a seguito della sconfitta subita nella Guerra di Secessione, della nobiltà sudista decaduta e votata all’autodistruzione, dei neri, degli indiani e dei poveri bianchi condannarti all’emarginazione, alla frustrazione esistenziale, alla rivolta e alla violenza. Ma i temi che egli affronta e il suo modo di trattarli non si prestano a letture ideologicamente edificanti. Il suo atteggiamento è di umana compassione ma anche di lucidità priva di moralismi, talvolta non ignara d’una arguzia capace di stigmatizzare senza indulgenza le ipocrisie e le storture a cui gli esseri umani spesso si riducono.  Da grande scrittore qual è, sa frugare nel cuore dell’uomo con sguardo limpido e asciutto, consapevole delle drammatiche lacerazioni prodotte da un retaggio di schiavismo e di violenza rimasto vivo nella memoria e nel sangue del popolo americano. Del resto fu lui stesso a dichiarare con chiarezza, nel discorso di accettazione del Premio Nobel che gli fu conferito nel 1950, di essere interessato ai “problemi del cuore umano in lotta con se stesso: questo soltanto può generare una scrittura efficace, poiché di questo soltanto val la pena di scrivere”. 
Dionisio di Francescantonio

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