Ma, al cospetto di quel vasto
materiale artistico e storico così lontano da noi si avverte anche qualcosa di
sottilmente familiare, non ignaro d’un pizzico di sortilegio, che ti avvisa
d’essere penetrato nel ventre materno delle arti e dell’oggettistica
dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, come se ti trovassi a tu per tu con
tutti gli archetipi a cui si sono abbeverati via via gli artisti e gli
artigiani delle civiltà successive a quella egiziana, dai sumeri ai greci e su
su fino ai nostri giorni. Soprattutto la scultura, con tanti esemplari intagliati
nelle materie più diverse, nel granito, nel calcare, nell’arenaria,
nell’alabastro, nel legno e nel rame, rappresenta una sorta di rassegna
esauriente delle diverse possibilità che da lì in poi l’uomo avrà di
rappresentare la figura umana, dalla più banale, come certe figure non più
espressive d’una bambola, alla più eccelsa, quali appaiono molte statue a tutto
tondo dove l’osservazione della natura e l’euritmia delle forme si equilibrano
in modo così perfetto e con una tale maturità di stile da farti sentire di
essere, senza possibilità di dubbio, in presenza di uno dei vertici
dell’espressività artistica raggiunta dall’uomo. Il museo costituisce insomma
un contenitore esauriente della cultura materiale e artistica prodotta dalla
civiltà egizia, dove sembra che tutto il popolo egiziano, coi suoi abiti,
le sue acconciature, le sue armi, i suoi strumenti e i suoi oggetti sia
convenuto per essere restituito magicamente dalla sua remota e solenne eternità
all’attonita ammirazione dei nostri occhi di inconsapevoli e tanto lontani
discepoli. Lo osserviamo in piedi, seduto, in atto di incedere solennemente; da
solo, a gruppi di due, di tre o più individui; in posa rigidamente frontale,
col torso nudo e il perizoma pieghettato attorno ai lombi, le spalle quadrate e
la vita sottile, le braccia lunghe coi pugni stretti intorno a corti bastoncini
e le gambe vigorose sui piedi nudi posati saldamente al suolo; talvolta, se si
tratta d’una figura regale, con le braccia incrociate sul petto, stringendo in
una mano il pastorale e nell’altra una piccola frusta, col capo sovrastato
dalla mitra oppure avvolto nella sacra benda dalle larghe falde cadenti sulle
spalle e con la stretta barba a cono, emblema di saggezza, applicata
artificialmente al mento. Gli dèi esibiscono un corpo umano e una testa
d’animale, come Anubi, il signore dell’oltretomba, col muso di sciacallo eretto
severamente sul vigoroso torso maschile, o come Bastet, la dea felina
reggitrice degli istinti primordiali, con la testa di gatta innestata su un
corpo muliebre imperiosamente sensuale. Gli scribi, numerosissimi, a
testimonianza di una civiltà che all’arte della scrittura – e quindi alla
memoria del passato – attribuiva una grande importanza, stanno seduti con le
ginocchia aperte per accogliere il papiro e con lo stilo in mano pronto alla
scrittura, lo sguardo volto con altera condiscendenza verso chi sosta a
contemplarli, quasi a sottolineare l’insostituibilità della loro missione.
Spesso le sculture conservano ancora
la pittura della pelle, dei capelli e delle vesti stesa nei colori naturali in
modo da aumentare l’illusione della vita, giacché tutte queste statue di re, di
alti funzionari, di generali e di scribi, ma anche di semplici ancorché
abbienti cittadini, avevano uno scopo non già ornamentale ma pratico,
eminentemente utilitario: quello di conservare il corpo del defunto
riproducendolo sontuosamente in effigie (oltre che, come si sa, mummificandone
i resti mortali) per permettergli di continuare a vivere nell’aldilà. Non
bisogna dimenticare quest’aspetto quando si considera la scultura dell’antico
Egitto, cioè che essa era destinata in gran parte a garantire ai suoi esponenti
la vita nell’oltretomba, specie di quelli più eminenti, quali, va da sé, i
faraoni, i sacri figli del Sole destinati a ritrovarsi nell’alto del cielo
accanto al Padre venerando una volta concluso il proprio numinoso soggiorno
sulla terra. Ciò serve intanto a comprendere la ragion d’essere di quelle
altrimenti assurde montagne di pietre quali potrebbero apparirci le piramidi,
tanto imponenti ma nient’altro che solidi geometrici per essere considerati
autentici monumenti dello spirito, ossia opere ascrivibili all’afflato della
creazione artistica. Giacché la piramide, nient’altro che una tomba, la dimora
sepolcrale del faraone così convinto della propria divina grandezza da
desiderarne una eretta con centinaia e centinaia di massi di granito pesanti
alcuni milioni di tonnellate, doveva servire a proteggere la mummia del faraone
dalla corruzione del tempo e dalla profanazione degli uomini col peso eterno
della sua mole grandiosa, ma altresì a propiziarne, attraverso il proprio apice
puntato verso l’alto, l’ascesa al cielo onde ricongiungerlo rapidamente alla
forza del globo solare da cui era stato generato.
Se lo scultore, in relazione allo
scopo a cui era destinata la statuaria umana, veniva designato, in Egitto, come
“colui che mantiene in vita”, l’architetto aspirava a una funzione ancora più
importante e complessa, che, associandosi a quella dello scultore, forniva
anche la dimora per invogliare gli dèi a soggiornare sulla terra accanto agli
uomini, favorendo quel connubio tra umanità e divinità, e tra vita di qua
e vita di là, che per il popolo egizio, forse più che per altri,
qualificava l’esistenza e che spiega la predilezione per le dimensioni
colossali, ritenute congrue al concetto di sovrumano, nella costruzione di
dimore per la vita di qua, come a Luxor, “la città dei re”, e a Karnak e
a Deir-el-Bahari, con i templi simili a immensi recinti caratterizzati da mura
e colonne mastodontiche atte ad accogliere esseri appunto smisurati come gli
dèi o i faraoni, loro figli e rappresentanti sulla terra; o a Sakkara e a
el-Giza con le tombe imponenti per la vita di là, dove il dio
defunto poteva intraprendere indisturbato il suo viaggio notturno per
risalire alla luce solare.
In questa contiguità con la morte,
quasi un vagheggiamento degli inferi intrattenuto dagli egizi continuamente e
irresistibilmente, si potrebbe esser tentati di scorgere, come del resto
facevano i greci e i romani, e prima di loro gli israeliti (per i quali
l’Egitto era Sceòl, il regno dei morti), una possibile causa della
mancata apertura sul resto del mondo d’una civiltà che, pur nella sua
complessità e raffinatezza di costumi, non smise mai di civettare con l’idea
del sonno eterno, certo condizionata in questo dalla limitatezza e labilità del
suo mondo, circondato e isolato com’era da un deserto letale e sottoposto agli
imprevedibili umori di un fiume-dio che poteva, con la pienezza o scarsità
delle sue acque, decretarne la prosperità come l’estinzione, la vita come la
morte. Eppure è proprio da quella società così sensibile alla caducità delle
cose del mondo da non riuscire a dilatare il proprio orizzonte oltre l’eterno
ritorno delle piene del Nilo – suo Nume ma anche suo imperscrutabile tiranno,
bizzoso e incostante – che prenderà il via il vitalissimo percorso della
cultura classica, a cui il vecchio Egitto aveva preparato il cammino sfrondando
ampiamente l’arduo sentiero della civiltà. Quando ci si trova a tu per tu con
le vestigia superstiti della cultura faraonica, apparentemente tanto
remote e distaccate eppure, come dicevo, così familiari alla nostra sensibilità
da farci ravvisare in esse il serbatoio archetipico della nostra memoria
culturale, non possiamo nutrire dubbio alcuno sul ruolo di matrice ch’essa ha
rivestito per tutti noi, in particolare per quella civiltà greca su cui si
forgerà la coscienza luminosa dell’Occidente. Il debito della Grecia con
l’Egitto apparirà manifesto, anzi irrefutabile a chiunque abbia avuto modo di
esaminare la scultura ellenica delle origini, in particolare certe figure di kouros
conservate in diversi musei greci, per il criterio strutturale della
composizione rigorosamente geometrico e per la rigida frontalità della visuale;
così come risulterà incontestabile la derivazione degli edifici greci da
quelli faraonici – pur, questi ultimi, tanto più imponenti e concettualmente
“sovrannaturali” – per l’uso al tempo stesso strutturale e ornamentale, ad
esempio, delle colonne, fascinose unità architettoniche nate probabilmente
proprio in Egitto e ideativamente derivate quasi certamente dai pali usati per
innalzare e reggere la tenda dell’esistenza nomade, allorché l’uomo cominciò a
costruire edifici permanenti ove trovare fissa dimora per sé e per i propri dèi
dopo aver abbandonato la vita incerta ed errante del cacciatore-raccoglitore
per quella stabile e più sicura dell’agricoltore. Così dovette accadere ai
primi egiziani che decisero di prendere dimora definitiva presso il fiume che
chiamarono Nilo, ravvisando in esso una fonte da cui trarre in permanenza il
proprio sostentamento.
Dionisio di Francescantonio
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