Il Nilo è
l'Egitto; è la linfa vitale, lo stesso principio della vita; tanto che gli
egizi non si limitavano a considerarlo una patria, ma ne fecero addirittura un
dio, Api, componendo in suo onore inni di festosa adorazione.
Salute
a te, Api, esci dalla terra e giungi a dar vita a Keme,
onda
che ti spandi sugli orti per dar vita a tutto ciò che ha sete...
Quando
tu straripi, o Api, la terra urla di gioia, ogni ventre è in festa,
ogni
dorso è scosso dalle risa, ogni dente mastica...
E il
sole, la massima divinità del popolo egizio, Amun-Ra altrimenti detto
Rahotep “il contento”, il dio grande e benefico, principio di vita (ma nel
deserto anche causa, appunto, di morte, e allora è Set “l'implacabile”), lo si immaginava traghettare il cielo in
barca, così come il faraone, il “dio in terra”, traghettava il Nilo sulla sua
barca regale. L'immagine del fiume era dappertutto, suggeriva le metafore e
determinava il pensiero, era causa e ragione di tutte le cose, giacché l'essere
nel mondo degli uomini che più di 5000 anni fa cominciarono presso quel
fiume a prosperare, dando vita alla prima civiltà storica e forse alla cultura
più insigne dell'antichità, dipendeva direttamente dall'esistenza del fiume e
dal ciclo annuale delle inondazioni. Ancora oggi per il popolo egiziano il
fiume, come al tempo dei faraoni, è la linfa vitale e la risorsa esclusiva; ma
se nel passato esso è stato la fonte di una leggendaria opulenza, ai nostri
giorni invece è ben lungi dal fornire nutrimento sufficiente a una popolazione
che cresce continuamente e non trova più di che vivere nella troppo esigua terra
d'Egitto. Ciò perché, nonostante l'intera superficie della Repubblica Egiziana
odierna superi quella di qualsiasi nazione europea, i suoi attuali ottanta
milioni di abitanti e più sono obbligati a vivere ammassati solo sul tre per
cento del territorio, quello, appunto, che corre lungo i fianchi del Nilo, il
solo coltivabile come ai tempi degli antichi egizi. Ed è in questo eccesso di
popolazione che risiede la causa attuale della povertà dell'Egitto, mentre
all'epoca dei faraoni l'equilibrio tra numero degli abitanti e ricettività e
produttività del suolo consentiva agli agricoltori di ottenere una produzione
notevolmente superiore al loro fabbisogno domestico, per cui il sovrappiù
poteva essere devoluto all'esecuzione di grandi lavori pubblici oltre che al mantenimento
e alla prosperità di caste di nobili, di sacerdoti, di sapienti, di militari,
di funzionari, di architetti e di artigiani, i quali plasmarono quella società
complessa ma unitaria, splendida e abbagliante, che fu l'Egitto faraonico e che
durò per oltre quattromila anni, restando ostinatamente fedele a se stessa,
alla propria lingua, al proprio concetto della vita e dell'oltretomba, alle
proprie leggi rigorose e ai propri giochi e svaghi particolari.
Il prodigio del Nilo, un fiume in mezzo al deserto che dà vita a un'oasi lunghissima e che con le sue piene ricche di limo fertilizzante permette a un popolo di agricoltori di produrre due o tre raccolte all'anno e di edificare su questa base una civiltà lussuosa e raffinata, viene dunque a cadere nel momento in cui si verifica uno squilibrio tra la quantità di frutti concessa dalle acque del Nilo e la quantità di bocche aspiranti a nutrirsi di quei frutti. Non ci è possibile indicare con precisione quale fosse il numero degli abitanti dell'Egitto in epoca faraonica, ma, sulla base della testimonianza fornita dai documenti greci e romani, si può presumere che esso non abbia mai superato, al massimo del popolamento della valle del Nilo, i sei o sette milioni di individui; una quantità minima, come si vede, rispetto al popolamento abnorme dei nostri giorni. Eppure già al tempo dei faraoni l'impegno per il controllo e l'impiego delle acque del Nilo onde garantire la prosperità del suolo – e quindi il nutrimento per tutti gli abitanti, oltre al superfluo – era massiccio e incessante, come viene testimoniato sia da una delle più antiche raffigurazioni del faraone, dove il monarca egizio appare occupato a scavare un canale con le sue stesse mani, sia dalla consuetudine di indicare sulle liste regali, sorte di annali redatte dagli scribi degli avvenimenti occorsi durante i vari regni, le diverse elevazioni raggiunte dalla piena del Nilo. Anche allora esisteva la consapevolezza che una rottura dell'equilibro, dovuta a una o più annate di piena insufficiente, sarebbe risultata rovinosa o addirittura fatale per l'Egitto. La prova più suggestiva di tale consapevolezza la troviamo nella celeberrima storia di Giuseppe che interpreta i sogni del faraone, così come ci viene narrata nella Bibbia, al libro della Genesi. Come si ricorderà, il faraone di quel tempo, uno dei tanti Amenhotep, forse il IV o il V, aveva sognato sette vacche bruttissime, magre e affamate, divorare sette splendide vacche grasse, e sette spighe macilente, vuote e arse dal vento, inghiottire sette magnifiche spighe colme e dorate; e Giuseppe, consultato dal faraone turbato dai due sogni oscuri e inquietanti, spiegò che le sette vacche grasse e le sette spighe colme rappresentavano sette annate di grande abbondanza di raccolto per l'Egitto, mentre le sette vacche magre e le sette spighe vuote altrettante annate di carestia che avrebbero fatto seguito all'abbondanza ed esposto il paese al rischio del disastro. Solo facendo prelevare il quinto dell'intero raccolto durante i sette anni di abbondanza e ammassandolo nei granai come riserva per le annate di carestia – fu quindi il giudizioso consiglio fornito da Giuseppe al faraone – si sarebbe potuto preservare il popolo dalla fame e salvare l'Egitto dalla perdizione.
Il prodigio del Nilo, un fiume in mezzo al deserto che dà vita a un'oasi lunghissima e che con le sue piene ricche di limo fertilizzante permette a un popolo di agricoltori di produrre due o tre raccolte all'anno e di edificare su questa base una civiltà lussuosa e raffinata, viene dunque a cadere nel momento in cui si verifica uno squilibrio tra la quantità di frutti concessa dalle acque del Nilo e la quantità di bocche aspiranti a nutrirsi di quei frutti. Non ci è possibile indicare con precisione quale fosse il numero degli abitanti dell'Egitto in epoca faraonica, ma, sulla base della testimonianza fornita dai documenti greci e romani, si può presumere che esso non abbia mai superato, al massimo del popolamento della valle del Nilo, i sei o sette milioni di individui; una quantità minima, come si vede, rispetto al popolamento abnorme dei nostri giorni. Eppure già al tempo dei faraoni l'impegno per il controllo e l'impiego delle acque del Nilo onde garantire la prosperità del suolo – e quindi il nutrimento per tutti gli abitanti, oltre al superfluo – era massiccio e incessante, come viene testimoniato sia da una delle più antiche raffigurazioni del faraone, dove il monarca egizio appare occupato a scavare un canale con le sue stesse mani, sia dalla consuetudine di indicare sulle liste regali, sorte di annali redatte dagli scribi degli avvenimenti occorsi durante i vari regni, le diverse elevazioni raggiunte dalla piena del Nilo. Anche allora esisteva la consapevolezza che una rottura dell'equilibro, dovuta a una o più annate di piena insufficiente, sarebbe risultata rovinosa o addirittura fatale per l'Egitto. La prova più suggestiva di tale consapevolezza la troviamo nella celeberrima storia di Giuseppe che interpreta i sogni del faraone, così come ci viene narrata nella Bibbia, al libro della Genesi. Come si ricorderà, il faraone di quel tempo, uno dei tanti Amenhotep, forse il IV o il V, aveva sognato sette vacche bruttissime, magre e affamate, divorare sette splendide vacche grasse, e sette spighe macilente, vuote e arse dal vento, inghiottire sette magnifiche spighe colme e dorate; e Giuseppe, consultato dal faraone turbato dai due sogni oscuri e inquietanti, spiegò che le sette vacche grasse e le sette spighe colme rappresentavano sette annate di grande abbondanza di raccolto per l'Egitto, mentre le sette vacche magre e le sette spighe vuote altrettante annate di carestia che avrebbero fatto seguito all'abbondanza ed esposto il paese al rischio del disastro. Solo facendo prelevare il quinto dell'intero raccolto durante i sette anni di abbondanza e ammassandolo nei granai come riserva per le annate di carestia – fu quindi il giudizioso consiglio fornito da Giuseppe al faraone – si sarebbe potuto preservare il popolo dalla fame e salvare l'Egitto dalla perdizione.
L'imponderabilità
della profusione o della scarsità di una piena, e quindi della dovizia o
dell'irrilevanza del raccolto, era per gli antichi egizi aggravata, oltre che
dalla rudimentalità della tecnologia allora a disposizione per il controllo e
la distribuzione più efficace dell'acqua, dal fatto che essi ignoravano
completamente quali fossero le sorgenti del Nilo e quali le origini delle sue
piene preziose.
La storia
delle indagini e delle esplorazioni per giungere alla scoperta delle sorgenti
del Nilo riempie un capitolo vastissimo della grandiosa vicenda del fiume,
oltre che costituire, naturalmente, una delle mystery-story più
intriganti e affascinanti per più generazioni di uomini. La fisionomia
estremamente ingarbugliata del territorio attraversato dal Nilo ha impedito per
secoli di sciogliere l'enigma. Le sei cateratte a monte di Assuan ne
impediscono la navigazione oltre questo limite e nei pressi della conca
sudanese le acque si disperdono in un groviglio di acquitrini e paludi da cui è
impossibile districarsi per ritrovare la via che consenta di risalire fino alle
sorgenti. Peraltro, nel quinto secolo a. C. Erodoto aveva elaborato una
sciagurata teoria sul Nilo che contribuirà a creare una confusione destinata a
durare per un tempo interminabile. L'insigne storico greco, infatti, aveva opinato
che il Nilo coincidesse col Niger, l'altro grande fiume africano; secondo lui
si trattava di uno stesso corso d'acqua che nasceva nell'Africa occidentale,
attraversava la conca del Ciad e si dirigeva quindi verso l'Egitto. Una
versione più vicina alla realtà venne invece avanzata nel secondo secolo d. C.
da un altro greco, l'astronomo e geografo Tolomeo, il quale aveva consultato
nella biblioteca di Alessandria le opere di Marino di Tiro (vissuto nel primo
secolo), a loro volta ispirate dai racconti di Diogene, ardimentoso esploratore
ante litteram della costa orientale dell'Africa. Basandosi sulle
indicazioni ricavate da quelle letture, Tolomeo tracciò una carta in cui
comparivano le imponenti montagne della Luna cinte di nevi, alle cui pendici
settentrionali disegnò una regione lacustre da cui fioriva un primo fiume che
andava a confluire, più o meno all'altezza della città nubiana di Meroe, in un
secondo emissario proveniente da un lago situato più a sud. Le scoperte degli
esploratori europei confermeranno proprio questo schema, da sempre ritenuto
sospetto a causa dell'ampio credito riservato a Erodoto in Europa. Gli antichi,
quindi, avevano già individuato i principali elementi geografici dell'alto
corso del Nilo, essenziali per spiegarne l'origine: montagne elevate, laghi e –
componente cruciale – un grande affluente sulla riva destra. Ma quest'ultimo
complicava ulteriormente le ricerche, in quanto vi erano due fiumi da scoprire:
quello che sarà poi chiamato il Nilo Azzurro, che rampolla e scende dall'altopiano
etiopico, e il Nilo Bianco, che si sviluppa nel cuore dell'Africa. Tra
l'altro, Diogene aveva già intuito l'inutilità di risalire il Nilo: occorreva
cercare le sorgenti partendo dalla costa dell'oceano Indiano, proprio come poi
faranno gli esploratori europei.
L'aristocratico
scozzese James Bruce, scopritore intorno al 1765 del lago Tana situato
sull'altopiano etiopico, dal quale, attraverso le maestose cascate del
Tissisat, nasceva un corso d'acqua diretto verso il Sudan, individuò per primo
la sorgente del ramo orientale del fiume, ossia il Nilo Azzurro, mentre
la sorgente del ramo occidentale, il Nilo Bianco, fu scoperta solo nel
1857 a seguito della spedizione di due ufficiali inglesi, John Hanning Speke e
Richard Burton. La spedizione, organizzata all'isola di Zanzibar, era stata
promossa con ampi finanziamenti dalla Royal Geographical Society, ma si rivelò
irta di difficoltà d'ogni genere, sfibrante per la lunghezza e asperità del
percorso ed estremamente perniciosa per la salute dei due esploratori; tanto
che sarà il solo Speke, dal momento che Burton, troppo malato, era stato
costretto a fermarsi, a raggiungere la sorgente, quella sorta di grande mare
interno rappresentato dal lago più vasto dell'Africa (68.000 chilometri
quadrati) battezzato dallo stesso Speke Lago Vittoria in onore della
regina inglese e che, con l'ausilio dei più piccoli laghi adiacenti e ad esso
comunicanti, alimenta il corso d'acqua che giungerà fino alla costa
mediterranea.
Questa,
molto sinteticamente, la storia delle avventurose esplorazioni che approdarono
alla conoscenza delle sorgenti del Nilo. Ma il regime estremamente complesso
dell'afflusso delle acque in Egitto è stato decifrato, per la verità, solo in
epoca recente. Sulla regione dei grandi laghi equatoriali da cui prende le
mosse il fiume immortale si abbattono, annualmente, le copiose piogge africane
in primavera. Ma l'acqua proveniente dai laghi gonfiati da tali precipitazioni
non arriverebbero che in misura inadeguata in Egitto, poiché l'evaporazione in
atto nei bacini sudanesi del Nilo Bianco, molto intensa, ne assorbe una
quantità ingentissima. Fortunatamente il fiume beneficia di un secondo e più
importante apporto di acque, quello dovuto ai monsoni degli altipiani
dell'Abissinia, che scaricano sul Nilo Azzurro piogge cospicue
trascinanti con sé, oltretutto, il prezioso limo strappato alle terre
vulcaniche dell'Alta Abissinia. Ciò che resta del flusso partito dai laghi
tropicali tra maggio e giugno comincia a giungere in Egitto a luglio, ma
immediatamente dopo segue quello, più ricco, proveniente dall'Abissinia, dove
il massimo di precipitazioni si riscontra da giugno a ottobre. La piena del
Nilo si verifica quindi in piena estate e ciò è di fondamentale importanza in
un paese dal clima sahariano, dove la massima temperatura si manifesta in
luglio e in agosto e dove il suolo, perciò, si ricopre di acque proprio
all'epoca in cui il solleone minaccerebbe di essiccare e annientare ogni
coltivazione; mentre d'inverno, allorché il sole è considerevolmente più mite,
le acque regolari del fiume bastano ad alimentare le colture anche con i
sistemi tradizionali di irrigazione, costituiti da canali scavati
rudimentalmente e da piccoli sbarramenti di legno e fibre intrecciate.
Questo
meccanismo così preciso poteva – com'è facile immaginare – incepparsi e
provocare disastri con estrema facilità: bastava appena un ritardo delle piogge
da una delle località di provenienza delle acque per determinare una piena
inadeguata o irrilevante. Oggi che il complesso sistema di flussi e deflussi
del Nilo ci è perfettamente noto, l'uomo ha cercato di porvi rimedio costruendo
una diga imponente, quella di Assuan, capace di garantire una sorta di
immagazzinaggio permanente dell'acqua volta ad attuare una piena artificiale a
portata regolare, in grado di sovvenire ai bisogni agricoli di ogni stagione
con l'utilizzazione metodica e mirata delle acque del fiume. Ma se l'alta
tecnologia oggi in possesso degli uomini ha permesso di imbrigliare e di
utilizzare sistematicamente un delicato e imprevedibile processo naturale di
fronte al quale gli egiziani di una volta potevano solo riconoscere la propria
inermità, non possiamo non ammettere, di fronte all'attuale miseria dell'Egitto
e alla sua favolosa prosperità di un tempo, l'abisso che, in termini di
saggezza, di buon senso, di previdenza e lungimiranza, separa l'uomo di oggi da
quello che ha saputo assicurarsi per oltre quattromila anni condizioni di vita
tanto più ragguardevoli e allettanti delle sue.
Dionisio
di Francescantonio
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