La definizione riduttiva di fumettista si attaglia poco a un
disegnatore eccezionale e visionario come lui. Ma, di fatto, benché abbia
compiuto numerose incursioni nel cinema, collaborando, tra altri, con registi
del calibro di Jodorowsky, Luc Besson e Ridley Scott, Giraud è stato
essenzialmente un disegnatore di storie a fumetti. Viene da chiedersi perché
abbia scelto questo mestiere minore e
non abbia fatto il pittore tout court.
La risposta non è difficile, se ci riflettiamo un momento. In un’epoca come
quella in cui Giraud ha vissuto, durante
la quale la pittura ha subìto un’involuzione radicale, declassando la
figurazione ad anticaglia e perfino
negandole l’ammissione ai circuiti commerciali, che cosa poteva fare, per
guadagnarsi da vivere, un figurativo per eccellenza come lui, capace come pochi
altri di restituire con minuziosa dedizione figure d’uomini e donne così come
ci appaiono quando le osserviamo esternamente e come diventano allorché
assumono forme aliene e minacciose; o animali evocati da un passato ancestrale
oppure emersi da qualche fessura delle pareti di casa; e inoltre i paesaggi più
lussureggianti, gli abissi degli oceani, cieli rilucenti di stelle solcati da navi spaziali
immaginifiche; e infine città, città del futuro, città impossibili, città
librate nello spazio a somiglianza di quelle evocate da Magritte ma molto più
intriganti delle sue?
Indubbiamente è perché aveva in ogni caso scelto di vivere tracciando figure allorché, dopo aver giocato con la matita e i pennelli fin da bambino, ha cominciato a disegnare professionalmente dedicandosi al genere più popolare del fumetto, il western, proprio nel momento in cui fioriva in Europa il west di Sergio Leone e contribuendo assieme a lui a restituire al genere quell’appeal che in America stava perdendo per eccesso di usura. Il suo west è quello rappresentato dai tratti scanzonati del luogotenente Blueberry (Mirtillo), una sorta di Jean Paul Belmondo rusticano che, per una decina d’anni, cavalca e spara nelle strisce di Jean Giraud inseguendo avventure tratte dal retroterra hollywoodiano ma sempre illuminate da un humour irridente e dissacrante.
Finché il suo autore perde
interesse per il western-mirtillo così come, in Italia, il western-spaghetti
stava già stretto a Sergio Leone, e imbocca un’altra strada, quella della
fantascienza, o meglio della fantasia d’un viaggiatore nello spazio e nel tempo
che attinge all’alienità, all’ambiguità, all’extrasapienza e alla diversità,
assumendo, in questa nuova veste, lo pseudonimo di Moebius ripreso da uno
scienziato del ‘700, matematico e forse negromante. Ed è a questo punto che si
scatena in tutta la sua potenza immaginativa la fantasia di questo autentico
avventuriero delle forme disegnate e dipinte, creatore di un universo al tempo
stesso tenebroso e luminoso che rappresenta più l’interno che l’esterno di noi
stessi. E’ sulla rivista Métal Hurlant , fondata dallo stesso Moebius
insieme ad un manipolo di amici, che si sviluppa il nuovo corso delle sue
storie, affidate più al disegno e all’impaginazione grafica che alle parole, e
dove la struttura del racconto non ha sequenze logiche ma si configura come un
viaggio all’interno della mente, una fantasticheria o prospezione visionaria su
un tempo che non è passato né presente né futuro, anche se li condensa tutti e
tre. Talvolta il disegno di Moebius scava nell’incubo, lo cesella, lo
materializza nei più minuti particolari, ma condendolo spesso con la salsa acre
del sarcasmo. Questo nuovo genere di storia disegnata farà scuola e costituirà
il traguardo stilistico di riferimento per un’intera generazione di
disegnatori, tutti emuli di Moebius, oggi resi orfani dalla sua morte
In verità tutti coloro che
conoscevano la sua magnifica produzione grafica si sentono orfani. Per anni
egli ha nutrito ed esaltato il nostro immaginario nel suo modo personalissimo,
fascinoso e incantevole, e questo ci mancherà. Inoltre ha mantenuto viva e alta
la bellezza e la nobiltà dell’arte del disegno, avvalendosi delle tecniche più
moderne ma senza mai dimenticare gli insegnamenti più fulgidi del passato (si
avverte costantemente nel suo tratto l’influsso di grandi disegnatori come il
Durer e il Doré), e anche questo lo rende prezioso.
Dionisio di Francescantonio
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