Provo a chiarire cosa voglio dire
perché oggi c’è una grande confusione su questa questione, e lo faccio usando
un’esperienza personale. Io, da piccolo, sapevo che cos’era l’arte perché avevo
scoperto molto presto di saper disegnare e dipingere e quando (diciamo allo
scoccare dei miei primi dieci anni) mi chiedevano: “Cosa farai da
grande?”, rispondevo invariabilmente e ultraconvinto: “Il pittore”, vale a dire
uno di quei mestieri destinati per definizione a produrre arte, cioè quel
prodotto magico che ci incanta e ci fa sorridere o indignare o commuovere, come
dire battere il cuore un po’ più forte del solito. Però, fino a tredici anni,
di cinema avevo masticato solo generi western, cappa e spada, polizieschi,
sandaloni etc. (quella roba che definiamo di consumo, insomma) e non avevo
messo in conto, se non molto vagamente, che quello che rappresentava il passatempo
della domenica pomeriggio (mio come d’altri coetanei e anche di tanti adulti
assieme ai quali mi infilavo in un salone buio dove si compiva, su un telone
bianco, lo straordinario effetto d’una visione altra della vita, molto
più fantastica e avventurosa della nostra), che quel passatempo, insomma,
potesse produrre poesia, cioè la sensazione d’essere in presenza del sublime e
del pathos che ti comunica l’opera d’arte. Poi, a quattordici anni, vidi Il
settimo sigillo di Ingmar Bergman e, di colpo, capii che il cinema poteva
essere un efficacissimo mezzo di produzione di quella magia che chiamiamo arte.
Il settimo sigillo: il cavaliere gioca a scacchi con la morte |
Ho fatto un nome importante - quello di Ingmar Bergman - proprio perché voglio arrivare immediatamente al
nocciolo del tema. Il settimo sigillo è un’opera difficile, specie per
un ragazzino di quattrodici anni, un film che costringe l’uomo a interrogarsi addirittura sul senso della sua
presenza nel mondo, e tale interrogativo investe la questione della fede in una
vita ultraterrena e quella del valore della vita dell’ uomo rispetto ai suoi
simili.
Il settimo sigillo. il cavaliere Antonius Blok |
Il settimo sigillo: il saltimbanco e la moglie |
Il cavaliere – il protagonista del film – torna da una crociata che lo ha profondamente deluso e dice di sé: “Il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura, indifferenza verso il prossimo, verso i miei irriconoscibili simili”. Ma, dopo aver attraversato e osservato nel suo itinerario i segni dei drammi e delle tragedie degli uomini (la guerra, la pestilenza, la collera, l’adulterio, la superstizione che induce a mettere al rogo una strega presunta), si riscatta sottraendo alla morte la famigliola felice del saltimbanco che ha il dono della visione (salva quindi gli artefici di quella magia suprema che rappresenta il teatro, primo linguaggio della creazione artistica e antesignano dello stesso cinema, cioè il linguaggio scelto da Bergman) e in tale buona azione riconosce il volto del prossimo e nel prossimo il suo stesso volto. Può quindi accettare serenamente la morte, che ha tenuto a freno sfidandola a giocare a scacchi con lui, poiché ha trovato nell’atto d’amore compiuto un riflesso di quel Dio dal quale chiedeva invano un segno di riconoscimento.
Questo, più o meno, il succo che in
filigrana si coglie dal film. Ma, più che dal suo significato, è attraverso la
grande emozione visiva che l’opera di Bergman trasmette, dalla potenza
drammatica delle sue sequenze e dalle suggestioni evocative delle sue immagini
che essa riceve il sigillo dell’arte. Bergman rivela in questo film di
essere un vero e proprio stregone del linguaggio cinematografico, giocando con
la luce in modo da produrre uno smagliante contrasto di bianchi e neri (a
cominciare dalla scacchiera su cui il cavaliere si gioca con la morte la
possibilità di ottenere qualche ora di vita in più) e riuscendo a
coniugare il gioco intellettuale dell’allegoria, dei richiami simbolici ai
segni dell’Apocalisse e del dubbio esistenziale, con una raffinata poesia delle
immagini destinate a illustrare i sigilli apocalittici: la carestia, la peste,
la violenza, la fame, il potere. Ecco, mi pare di poter dire che, con questo
esempio, ho fornito un’idea, grosso modo, di quello che distingue il film
d’arte dal film di consumo, cioè della differenza che esiste tra il
film che vale la pena d’esser visto e quello alla fine del quale, se siamo
palati fini, se siamo educati al bello ed esigiamo di nutrirci di esso, ci
lascia l’impressione d’aver buttato via due ore.
Dionisio di Francescantonio
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