A Odessa, città dove nacque e
visse fino alla prima giovinezza, la vita del ghetto veniva celebrata in poesia
o in prosa in toni profetici e patetici nell’antico idioma ebraico, o ironici e
auto compassionevoli nel vernacolo yiddish, ma Babel, pur assorbendone la
fantasia immaginativa, non volle far parte di quel mondo, rifiutò sia lo
yiddish che l’ebraico e scelse di scrivere in russo, cioè nella lingua dei goyim, andandosene a vivere nella
capitale Pietroburgo. E quando scoppiò la rivoluzione, il giovane scrittore
immaginò di poter uscire dal proprio isolamento trovando una collocazione in
quella nuova esperienza collettiva che avrebbe dovuto abolire tutte le
differenze. Pur non essendo iscritto al partito, si mise al servizio del
nascente ordine comunista, aggregandosi all’armata a cavallo del maresciallo
Budennyi nella campagna che questi condusse in Polonia, in veste di redattore
del Cavalleggere Rosso, foglio di
propaganda per i soldati di quel corpo, ma, all’occorrenza, anche di
combattente al loro fianco. Fu da quest’esperienza che Babel trasse lo spunto per
comporre i racconti che costituirono la materia del volume L’Armata a Cavallo e che, uscito nel 1926, rivelò il suo
straordinario talento di narratore, caratterizzato da una cifra stilistica di grande
immaginazione e poesia, benché riprodotta nel solco della lingua parlata dal
popolo.
Seguì, dopo breve tempo, la
pubblicazione del volume Racconti di
Odessa, comprendente solo quattro racconti. Successivamente Babel scrisse
altre novelle ambientate nella sua città natale che, pubblicate nel corso degli
anni su alcune riviste, dovevano essere inserite in una nuova edizione del
libro, un progetto che però in Unione Sovietica non andò mai in porto a causa
del suo arresto, avvenuto nel 1938. Tale arresto, prodottosi nel clima delle
epurazioni staliniane dei cosiddetti seguaci di Trockij, fu l’inevitabile
conclusione della parabola d’un uomo che, pur con tutte le riserve d’un animo
mite e poco incline alle atrocità a cui assisté durante gli anni tragici ma
epici della guerra civile, s’era illuso di prender parte ad un nuovo corso
della storia dell’uomo. Nel clima mutato e cupo dell’“edificazione socialista”
di stampo stalinista, Babel perdette ogni sintonia con gli eventi, tanto che,
dopo aver composto due drammi teatrali e lavorato ad alcune sceneggiature di
film, ancora ispirati al mondo degli abitanti di Odessa, smise praticamente di
scrivere perché si sentiva respinto nella condizione di alienazione in cui
aveva sempre vissuto proprio da quella rivoluzione in cui aveva cercato di
credere con tutte le sue forze. Era perfettamente consapevole della sua
drammatica situazione, come testimonia la confidenza fatta ad un amico che poi
contribuì a farlo arrestare: “Uno
scrittore deve scrivere con sincerità, ma quanto c’è in me di sincero non può
essere pubblicato perché non è in armonia con la linea del partito”.
Sottoposto agli interrogatori della polizia sovietica, la cui natura coercitiva
è divenuta tristemente nota a livello mondiale solo dopo il crollo dell’Unione
Sovietica (ma chi aveva letto Buio a
mezzogiorno di Arthur Koestler, uscito in Europa nel 1940, ne era già
perfettamente al corrente), Babel fu costretto a confessare d’aver fatto parte
di un’organizzazione antisovietica operante fra gli scrittori e, benché durante
il processo ritrattasse tutto dichiarando che la confessione gli era stata estorta,
fu condannato alla fucilazione. L’esecuzione avvenne nel gennaio del 1942 e non
si è mai saputo dove lo scrittore è stato sepolto.
In Italia sono comparse via via, a
partire dal 1932, diverse traduzioni dell’opera di Babel, ma sempre parziali. Solo
recentemente è stata pubblicata l’opera narrativa completa presso Mondadori
nella collana dei Meridiani, grazie alla quale il lettore può conoscere nella
sua interezza la splendida produzione di questo grande narratore.
L’opera di Babel si può
raggruppare in tre sezioni: i racconti di guerra, i racconti di Odessa e i
racconti autobiografici. I racconti di guerra sono quelli dell’Armata a Cavallo, un libro dal prezioso
profumo esotico, di derivazione soprattutto ebraica ma, per taluni aspetti e
atmosfere, accostabile anche alle fiabe e alle leggende del folclore russo,
quelle cantate in versi da Aleksandr Puskin e raccolte dalla viva voce del
popolo dal folclorista Aleksandr Afanasjev. Questi influssi incidono
considerevolmente sullo stile di Babel, uno stile, come già accennato, ricco di
immagini rare e di squisite epifanie, ma basato anche sui modi arguti e vivaci
della narrazione popolare, in bilico tra
l’ironia e l’amarezza. Leggiamo alcune frasi, prese qua e là a caso tra
i racconti che compongono “L’Armata a Cavallo”: “Un sole arancione rotola nel cielo come una testa mozzata, un timido
bagliore s’accende negli squarci delle nuvole e sulle nostre teste sventolano
gli stendardi del tramonto”; “La via
verso la chiesa scorre sotto la luna come un latteo e luccicante ruscello”;
“Ed ella si mosse verso il comandante
portando alto, in punta dei piedi, un
petto agitato come una bestia in un sacco”; “La notte, trafitta dai lampi del bombardamento, s’inarca sul moribondo”;
“Protende le braccia al cielo, avviluppandosi
di notte come d’un incubo”; “L’autunno
assediava i nostri cuori e gli alberi, ritti cadaveri nudi, oscillavano ai
crocevia”; “L’incendio sfavillava
come una domenica”. Espressioni di notevole ispirazione immaginativa e
sempre mantenuti entro un registro di raffinato lirismo, mai sconfinante in un
gongorismo gratuito o fine a se stesso, che hanno fatto dire ad alcuni critici
che i racconti dell’Armata a Cavallo sono
preziosi come miniature, cui però la vena popolare aggiunge una freschezza e
vivacità di tono che li sottrae al rischio della staticità che potrebbe
accompagnarsi alla perfezione dello stile. Assaporiamo solo, a mo’ d’esempio,
questi due brani d’uno stesso racconto: “Ed
ecco che io pascolo il mio bestiame cornuto, le mucche m’assediano da tutte le
parti ed il latte mi riempie fino al vomito: io puzzo come un capezzolo
tritato, i tori mi girano intorno in buon ordine, dei tori muscolosi di pelame
grigio. La libertà mi giaceva in cerchio nei campi, l’erba frusciava per me in
tutto il mondo, i cieli si svolgevano su di me come una fisarmonica a molti
ventagli, ed i cieli, o ragazzi, nella nostra provincia di Stavropol, son
sempre molto azzurri...”; “E dopo
esserci dette per un po’ di tempo delle sciocchezze, ci sposammo in due
balletti. Ed io e Nastja cominciammo a vivere come si sapeva, e per saperlo, si
sapeva benino. S’aveva caldo tutta la notte, s’aveva caldo anche d’inverno, si
stava nudi tutta la notte e ci si sbucciava insieme la pelle”.
In questi racconti vengono spesso
rievocate scene di guerra, scontri di eserciti, villaggi distrutti dai
bombardamenti, uccisioni e saccheggi che conferiscono alla narrazione accenti
di epicità talvolta grandiosi, ma la pietà per gli umiliati e gli offesi dal
feroce cammino della guerra, per gli ebrei e i polacchi che si vedono privare
delle loro semenze e del loro bestiame e calpestare le messi e incendiare le capanne,
appare subito in contrasto coi toni eroici per mitigarlo in elegiaca
solidarietà per le vittime del massacro, quali esse siano, e da questa opposizione
tra i toni epici e patetici emerge l’elemento lirico, senza dubbio predominante
rispetto a quello eroico-celebrativo. L’atteggiamento del narratore risalta
chiaramente allorché si lascia andare a considerazioni di questo tipo: “La cronaca di tanti delitti quotidiani mi
opprime senza requie come un vizio cardiaco”, oppure, riferendosi agli
ebrei come lui travolti dalla tragedia della guerra: “La loro capacità di soffrire aveva una cupa grandezza”.
“I Racconti di Odessa”, scritti
prima e dopo e in qualche caso anche durante la redazione delle miniature dell’“Armata
a Cavallo”, hanno un carattere picaresco e pittoresco. In essi viene rievocato
con accenti ironici, irriverenti e divertiti, la vita del quartiere ebraico di
Odessa, la Moldavanka, coi suoi
furfanti, tra cui giganteggia Benja Kirk detto il Re perché “brigante e re dei briganti”, e i suoi
sensali, i suoi carrettieri, le sue prostitute e i suoi straccioni mendicanti.
La scrittura è sempre ricca e fastosa, come si evince da queste descrizioni: “Attraverso le porte annerite dal fumo
rosseggiava una vampa grassa e ubriaca, nei cui fumosi riflessi cuocevano volti
di vecchie dalle guance tremule e dalle bazze bavose”; “Vini esotici riscaldavano gli stomaci,
tagliavano carezzevolmente le gambe, annebbiavano i cervelli, provocavano rutti
sonori come squilli di trombe guerriere”. La rappresentazione della vita
popolare ebraica è in netto contrasto con la letteratura yiddish, improntata a
un’ironia grondante autocommiserazione, poiché i personaggi vi appaiono come
caricature plebee ma sono anche avvolte in un alone di romanticismo spaccone e
un po’ grottesco, non esente da affettuosa simpatia.
Nei racconti più propriamente autobiografici
emerge più chiaramente il dissidio del temperamento di Babel tra aspirazione a
un ordine più giusto ed umano capace di sanare i conflitti tra gli uomini e la
malinconia derivante dalla consapevolezza dell’inevitabilità della sconfitta
dei deboli e dei miti, come suo padre che aveva visto inginocchiarsi davanti ad
un ufficiale di polizia a cavallo e ai suoi uomini per impetrarne l’aiuto
contro la teppaglia che gli devastava la bottega, per essere ignorato e quasi
urtato dal passaggio indifferente del drappello, e come lui stesso, descritto
con disprezzo da un interlocutore in questi termini: “Un uomo con gli occhiali sul naso e l’autunno nell’anima” capace “di tuonare dal suo scrittoio, ma di balbettare davanti alla gente”.
Dionisio di Francescantonio
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