Non che questo abbia prodotto una
reazione a trecentosessanta gradi e l’abbandono generalizzato delle brutte
abitudini, ma oggi, almeno, il pubblico più avveduto comincia a rendersi conto
che lo sperimentalismo a oltranza imposto da una modernità intesa come rottura
totale col passato si è rivelato un’avventura presuntuosa e velleitaria, priva
di veri sbocchi creativi e per lo più finita nelle secche del nulla, del futile
e dell’inutile, per non dire del brutto, del deprimente o addirittura del
ripugnante. Tuttavia scalzare certe posizioni ormai acquisite non è facile.
Complice la cecità, la tracotanza, il gusto di rivoltarsi nell’insulso e nella
bruttura di certa critica e più in generale di quella fauna umana che ruota e
prospera attorno al mondo dell’arte (soprattutto organizzatori di eventi
artistici e amministratori pubblici e direttori di musei), le cosiddette
superstar dell’arte contemporanea continuano ad ammannirci i loro oggetti
astrusi, incomprensibili, talvolta ignobili, più spesso insignificanti ma
sempre insopportabili. Malauguratamente quella parte di pubblico che prova
insofferenza o disgusto davanti a questa paccottiglia insulsa è ancora in gran
parte in condizione di inferiority complex di fronte ai saputelli di
professione, cioè quei critici d’arte cresciuti nell’idea di un’arte intesa
come negazione del bello e del significativo, così si trincera dietro il facile
paravento dell’incompetenza e dell’incapacità a capire e giudicare l’arte
moderna. Come sempre, è il coraggio che manca al pubblico (quell’ingrediente
indispensabile che ti impedisce di accettare supinamente d’esser preso in giro
e di subire per buono e per vero ciò che è cattivo e fasullo) e questa mancanza
di coraggio fa sì che l’equivoco vada avanti e che certe amministrazioni
pubbliche continuino a proporre allestimenti di oggetti sgradevoli e
antiestetici, per di più a costi spropositati (bisognerebbe, se non altro,
indignarsi e protestare almeno di fronte a questo spreco, perché si tratta
sempre di denaro pubblico, ossia di soldi sottratti alle tasse che noi paghiamo).
Prendiamo, tanto per fare un esempio, la così detta Arte Povera, quel surrogato
del movimento Dada scoperto, o meglio inventato da Germano Celant, uno che
proviene da Genova, città dove il peggio, almeno a partire dalla metà
degli anni Settanta, sembra aver trovato un terreno privilegiato. In tempi
molto recenti questo signore ha concepito l’ennesima mostra di Arte Povera da
tenersi in più città, presso sale di musei, di banche o di altri enti pubblici,
e naturalmente a spese del contribuente. Ebbene, in che consiste questa “arte
povera”? Si tratta di stracci ammonticchiati, bottigliette allineate, lastre
d’acciaio o altri oggetti non più utili adunati in vario modo nello spazio ad
essi destinato. E questo come si può chiamare se non come una marchiana presa
in giro? Tanto più che perfino il suo profeta, Celant, dichiara candidamente
che questa non è arte, poiché l’arte “è finita… e basta con questa lagna…” E
chiarisce ancor meglio il significato dell’arte povera allorché la definisce
come “un monumento che tende alla decultura, alla repressione, al primario e al
represso, allo stato prelogico e preiconografico, al comportamento elementare e
spontaneo”. Siamo ad un passo dal ritorno nell’utero materno, insomma, quello
che precede appena la condizione del succhiare, riposarsi nell’ebetudine o
piangere per la fame e per altre molestie fisiche.
C’è poi la così detta arte
che, non avendo nulla da dire, ricorre allo choc, allo scandalo, alla trovatina
provocatrice rivolta quasi sempre, guarda caso, alla religione cristiana (mai
contro la musulmana, ben più intollerante e minacciosa), come la “rana
crocefissa” del tedesco Martin Kippenberger, paladino della blasfemia insieme
all’italiano Maurizio Cattelan, un vero e proprio guru della provocazione,
costui, autore d’una figura riproducente Papa Wojtyla abbattuto da un meteorite
e d’un cavallo morto sul quale si erge la scritta “Inri”. Per non parlare delle
invenzioni disgustose di Takeshi Murakami, un giapponese che allinea
gigantesche figure femminili in stile manga che sprizzano latte dai seni, o di
Tracey Emin, capace di esporre un letto sfatto con lenzuola sporche su cui
sparge preservativi e assorbenti usati. Questo è, insomma (e bisogna un po’
cominciare a dircelo con chiarezza), il risultato di tanti decenni di impostura
e provocazione di certa avanguardia artistica. Tristan Tzara, intorno al 1915,
all’inizio del dadaismo, era perfettamente consapevole del valore dei prodotti
di questo movimento, nato unicamente per provocare e prendere in giro: “Si può
parlare ancora di giudizio a proposito di produzioni gettate, per così dire,
sulla pubblica piazza come rifiuti naturali sprovvisti di qualsiasi pretesa?”
Marcel Duchamp è ancora più esplicito e strafottente: “Ho buttato loro in
faccia in un gesto di sfida lo scolabottiglie e l’orinatoio e ora li venerano
per la loro bellezza…”
Vogliamo continuare così? Vogliamo che si continuino a
promuovere queste esposizioni farsa ad uso e consumo d’una ristretta casta di
curatori e critici con contorno di collezionisti privi di gusto e di
intelligenza, desiderosi solo di buttar via denaro investendo nel brutto e nel
fasullo? Esposizioni, va da sé, rispetto alle quali l’adesione del pubblico è
superflua (anche se poi la spesa in pubblicità e promozione non è mai trascurabile),
la qualità è guardata con sospetto e la serietà considerata ignominia.
Dionisio
di Francescantonio
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