giovedì 29 novembre 2012

Il PRESEPE E GLI IMMIGRATI



 L’episodio la dice lunga sulla tendenza di alcuni esponenti della Chiesa a scambiare il proprio compito, che dovrebbe essere quello di testimoniare la Verità Evangelica, con quello di esponenti di certo sindacalismo o di certa politica che, in nome del finto-buonismo del  politically correct, usa il concetto di carità come un grimaldello per scardinare l’assetto della nostra società insieme alla sua cultura e alla sua storia e soprattutto alla sua identità più sostanziale, quella cristiana. Infatti, sostenere che occorre spalancare le frontiere del nostro territorio ad ogni tipo di immigrazione non solo non ci consentirà di offrire condizioni di vita civile, quella a cui tutti hanno diritto, a una massa incontrollata e incontrollabile di convenuti, costringendo la maggior parte di essi a vivere ai margini della nostra esistenza, ma esporrà tutti noi al pericolo maggiore e più grave, quello d’essere snaturati e travolti da quell’invasione sempre più massiccia di culture diverse e ostili alla nostra che la maggioranza della popolazione italiana, più avveduta e lungimirante di certi politici  e di taluni ecclesiastici, mostra giustamente di temere. 
Prendere il presepe a pretesto per una polemica di questo genere proprio da parte di alcuni religiosi è tanto più grave allorché, nel nostro paese, esso viene riscoperto e celebrato proprio dalla popolazione come un motivo forte di identità in cui riconoscersi. Quegli ecclesiastici, evidentemente, hanno dimenticato che la tradizione del presepe, fino a dieci-quindici anni fa, era in pieno declino e la ricorrenza del Natale veniva ormai celebrata quasi esclusivamente con i riti volgari del materialismo e dal consumismo di massa. La riscoperta della tradizione del presepe, e del suo allestimento dove non avveniva più da tempo (non ci riferiamo solo alle abitazioni private, ma anche a tante chiese ed oratori), si è verificata, guarda caso, proprio col diffondersi del timore d’essere minacciati da un’immigrazione selvaggia e aggressiva proprio verso ciò che sentiamo come il nostro modo di sentire più autentico, appartenente alla nostra identità originaria di cui la tradizione del presepe è parte integrante e insostituibile. 
 
Infatti, che cos’è il presepe? Che cosa significa per noi questa messa in scena della nascita di Gesù? Raffigurazione, vorremmo dire, didattica e quindi semplificata di un evento storico eccezionale, ma anche di un pensiero filosofico molto complesso (il sopravvento del fine e della speranza nella rinascita sul concetto orientale e pre-cristiano della vita intesa come la ruota dell’eterno ritorno), il mistero della Natività al centro del presepe è in realtà un elemento che appartiene alla nostra civiltà e al nostro modo di essere più profondo ed è per questo che il suo linguaggio ci è immediatamente familiare, coinvolgendo con pari forza il nostro sentimento e la nostra ragione. L’origine stessa del nome ci indica il significato della rappresentazione della Natività. Presepe o presepio, dal latino praesepe o praesepium, significa greppia, mangiatoia ma anche recinto chiuso in quanto composto da prae e saepire: cioè a dire, recingere con una siepe. E nell’etimologia della parola troviamo tutto il senso del presepe, che è la culla-mangiatoia, ossia la sede calda e palpitante della discesa in terra dell’Amor Divino, capace di nutrire ed elevare il cuore degli uomini, e al tempo stesso la raffigurazione di uno spazio definito e ben distinto dal tragico caos primigenio (o, tradotto in termini moderni, dal caos multiculturale) che viene domato e respinto dalla forza dirompente di un pensiero nuovo, quello, appunto, capace di dare un senso alla vita con la speranza della salvezza eterna. C’è da chiedersi se certi ecclesiastici seguaci del politically correct ricordino ancora questi concetti.
































Dionisio di Francescantonio

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