L’episodio la dice lunga sulla
tendenza di alcuni esponenti della Chiesa a scambiare il proprio compito, che
dovrebbe essere quello di testimoniare la Verità Evangelica,
con quello di esponenti di certo sindacalismo o di certa politica che, in nome
del finto-buonismo del politically correct, usa il concetto di
carità come un grimaldello per scardinare l’assetto della nostra società
insieme alla sua cultura e alla sua storia e soprattutto alla sua identità più
sostanziale, quella cristiana. Infatti, sostenere che occorre spalancare le
frontiere del nostro territorio ad ogni tipo di immigrazione non solo non ci
consentirà di offrire condizioni di vita civile, quella a cui tutti hanno diritto,
a una massa incontrollata e incontrollabile di convenuti, costringendo la
maggior parte di essi a vivere ai margini della nostra esistenza, ma esporrà
tutti noi al pericolo maggiore e più grave, quello d’essere snaturati e
travolti da quell’invasione sempre più massiccia di culture diverse e ostili
alla nostra che la maggioranza della popolazione italiana, più avveduta e
lungimirante di certi politici e di
taluni ecclesiastici, mostra giustamente di temere.
Prendere il presepe a
pretesto per una polemica di questo genere proprio da parte di alcuni religiosi
è tanto più grave allorché, nel nostro paese, esso viene riscoperto e celebrato
proprio dalla popolazione come un motivo forte di identità in cui riconoscersi.
Quegli ecclesiastici, evidentemente, hanno dimenticato che la tradizione del
presepe, fino a dieci-quindici anni fa, era in pieno declino e la ricorrenza
del Natale veniva ormai celebrata quasi esclusivamente con i riti volgari del
materialismo e dal consumismo di massa. La riscoperta della tradizione del
presepe, e del suo allestimento dove non avveniva più da tempo (non ci
riferiamo solo alle abitazioni private, ma anche a tante chiese ed oratori), si
è verificata, guarda caso, proprio col diffondersi del timore d’essere
minacciati da un’immigrazione selvaggia e aggressiva proprio verso ciò che
sentiamo come il nostro modo di sentire più autentico, appartenente alla nostra
identità originaria di cui la tradizione del presepe è parte integrante e
insostituibile.
Infatti, che cos’è il presepe? Che cosa significa per noi
questa messa in scena della nascita di Gesù? Raffigurazione, vorremmo dire,
didattica e quindi semplificata di un evento storico eccezionale, ma anche di
un pensiero filosofico molto complesso (il sopravvento del fine e della speranza nella
rinascita sul concetto orientale e pre-cristiano della vita intesa come la
ruota dell’eterno ritorno), il mistero della Natività al centro del presepe è
in realtà un elemento che appartiene alla nostra civiltà e al nostro modo di
essere più profondo ed è per questo che il suo linguaggio ci è immediatamente
familiare, coinvolgendo con pari forza il nostro sentimento e la nostra
ragione. L’origine stessa del nome ci indica il significato della
rappresentazione della Natività. Presepe o presepio, dal latino praesepe o praesepium, significa greppia, mangiatoia ma anche recinto chiuso
in quanto composto da prae e saepire: cioè a dire, recingere con una
siepe. E nell’etimologia della parola troviamo tutto il senso del presepe, che
è la culla-mangiatoia, ossia la sede calda e palpitante della discesa in terra
dell’Amor Divino, capace di nutrire ed elevare il cuore degli uomini, e al
tempo stesso la raffigurazione di uno spazio definito e ben distinto dal tragico
caos primigenio (o, tradotto in termini moderni, dal caos multiculturale) che
viene domato e respinto dalla forza dirompente di un pensiero nuovo, quello,
appunto, capace di dare un senso alla vita con la speranza della salvezza
eterna. C’è da chiedersi se certi ecclesiastici seguaci del politically correct ricordino ancora
questi concetti.
Dionisio di Francescantonio
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