Lui era per l’appunto un cercatore inesausto e caparbio di questo equilibrio perfetto, e per potersi dedicare interamente alla sua ricerca conduceva una vita solitaria, quasi monacale, affrancandosi dalle piccole noie del quotidiano grazie all’assistenza pratica di tre sorelle devote e abbandonandosi all’operosità mai sazia o appagante della silenziosa e appartata esecuzione artigianale che persegue la più grande delle ambizioni: quella di accedere al capolavoro. Saggiava senza soste le sue capacità tecniche ed espressive attraverso tappe successive in cui otteneva (o riteneva di ottenere) risultati parziali, ma risultati che spesso rasentavano già la perfezione. Nella variante, nella serie di opere scandite da mutamenti anche minimi di posizione e di tono degli oggetti prediletti, Morandi scavava ed estraeva dal proprio interno le sue potenzialità, le analizzava, per così dire le smontava e rimontava, cercando sempre quell’elemento non ancora trovato che potesse esprimere l’inesprimibile. Egli voleva creare un’immagine capace di comunicare un senso di eternità, e aspirava a questo effetto ritraendo quasi sempre gli stessi oggetti dopo averli composti e ricomposti nei modi più diversi per cercare ogni volta un effetto di armonia che rasentasse la pienezza, una pienezza sempre difficile da afferrare ma la cui vicinanza gli faceva respirare continuamente l’afflato e la magia della creazione unica, assoluta.
La sua pittura è stata paragonata a quella del
musicista che, di fronte all’ampiezza della tastiera, prova tutti i toni per
distillare in ognuno l’essenza del suono puro, estraendo così l’ingrediente che
ogni variazione può apportare alla sostanza dell’immagine. Così Morandi,
pittore soprattutto di nature morte, bottiglie, vasi, qualche fiore e scorci di
paesaggio non propriamente ameni, che “rivedeva” e”correggeva” continuamente, riesce a esprimere sovente, al di là della
sua stessa consapevolezza (o meglio della sua incontentabilità), l’inesprimibile,
e forse per questo è difficile definire la sua arte con le parole.
Bisogna
guardarle, le sue opere, sostare davanti
alle sue nature morte permeate di un’aura d’infinito, osservare le casseruole
sintetizzate in forme plastiche che sembrano l’alter ego degli oggetti rappresentati, emozionarsi di fronte agli
improvvisi squilli di bianco e di azzurro dei vetri accanto al basso terroso
dei vasi di coccio, esaltarsi davanti a certi
paesaggi che sembrano immagini di luce e di silenzio, immergersi insomma nel
pathos silente e sublime dei suoi quadri per capire che la sua pittura va al di
là di ogni definizione.
Morandi è senza dubbio un maestro
moderno, per l’essenzialità della sua figurazione tesa alla rappresentazione
più stringata delle cose, alla loro decantata purezza. Ma la sua pittura si
inscrive decisamente nel solco della grande tradizione figurativa italiana. Ai
suoi inizi non mancò di accostarsi alle avanguardie del Novecento; dal futuriismo, il movimento più chiassoso dell’avanguardia, fu appena sfiorato,
limitandosi egli a partecipare a una “serata futurista”, presenti Boccioni e
Carrà, realizzatasi a Bologna nel 1914, la città dove nacque ed operò. In
seguito fu attratto dalla metafisica, allorché Carrà e De Chirico ne fondarono
il movimento, e volle dipingere alcune
nature morte in chiave metafisica di fronte alle quali De Chirico non esitò a
parlare di “metafisica delle cose quotidiane”. Tuttavia era già una pittura,
quella di Morandi, che tendeva a una purezza ordinata e geometrica ignorata dai
fondatori del movimento. Infine provò interesse per la pittura di Cezanne a causa del fitto
intreccio di piani scanditi nello spazio teso a comporre una perfetta geometria
che caratterizzava il lavoro del maestro francese, quella visione che poi
Braque e Picasso evolveranno o meglio semplificheranno nel cubismo. Ma Morandi,
pur imbevendosi di questi influssi, non tardò ad imboccare la strada maestra
del rigore e della disciplina delle forme volte all’armonia e alla purezza, una
lezione che gli derivava dallo studio attento e intenso della grande pittura
italiana del XV secolo, soprattutto di quella di Giotto, di Piero della
Francesca, di Masaccio e di Paolo Uccello, non a caso tutti pittori che,
cercando quella stessa purezza delle forme, elevarono solidi monumenti alla
poesia
.
Gli oggetti che costituiscono la gran parte della produzione morandiana
(e, direi, la migliore, senza dubbio superiore a quella rappresentata dai
paesaggi e dai pochissimi ritratti), hanno, nelle diverse combinazioni in cui
li ritrae il pittore, una loro muta e solenne realtà, una realtà che, attraverso
lo sguardo incantato dell’artista nel momento in cui li ferma sulla tela,
appaiono come una realtà altra da
quella di semplici oggetti, una realtà che va oltre le pieghe più nascoste
dell’apparenza. Morandi ci restituisce insomma questa realtà misteriosa, non
visibile ad occhio nudo, ed è come se catturasse il fantasma dell’oggetto,
anzi, che operasse una magia su quell’oggetto, riducendolo all’essenziale e
facendo scaturire dal suo sembiante una vibrazione particolare capace di destare
un’eco misteriosa nel nostro animo.
C’è chi parla di Morandi come di
un pittore “provinciale” (non si spostò mai dalla sua Bologna, tranne nei mesi
più caldi dove si ritirava nella vicina campagna) e di un “piccolo maestro”
perché dipingeva solo bottiglie e casseruole e, di quando in quando (cioè
durante i mesi trascorsi in campagna), lo scorcio limitato di paesaggio che
vedeva dalla finestra di casa sua. Ma era un piccolo maestro come poteva esserlo
un Chardin o, per altri versi, Un Veermer; artisti, cioè, che rifiutarono il
grande pathos e lo scenario sfarzoso per scegliere di riprodurre l’epifania
della quotidianità, il canto interiore e rarefatto che scaturisce dalle piccole
cose e che, quando viene catturato, è capace di attingere un intenso lirismo.
Dionisio di Francescantonio
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