venerdì 30 novembre 2012

LA PITTURA DI GIORGIO MORANDI





 
















Lui era per l’appunto un cercatore inesausto e caparbio di questo equilibrio perfetto, e per potersi dedicare interamente alla sua ricerca conduceva una vita solitaria, quasi monacale, affrancandosi  dalle piccole noie del quotidiano grazie all’assistenza pratica di tre sorelle devote e abbandonandosi all’operosità mai sazia o appagante della silenziosa e appartata esecuzione artigianale che persegue la più grande delle ambizioni: quella di accedere al capolavoro. Saggiava senza soste le sue capacità tecniche ed espressive attraverso tappe successive in cui otteneva (o riteneva di ottenere) risultati parziali, ma risultati che spesso rasentavano già la perfezione. Nella variante, nella serie di opere scandite da mutamenti anche minimi di posizione e di tono degli oggetti prediletti, Morandi scavava ed estraeva dal proprio interno le sue potenzialità, le analizzava, per così dire le smontava e rimontava, cercando sempre quell’elemento non ancora trovato che potesse esprimere l’inesprimibile. Egli voleva creare un’immagine capace di comunicare un senso di eternità, e aspirava a questo effetto ritraendo quasi sempre gli stessi oggetti dopo averli composti e ricomposti nei modi più diversi per cercare ogni volta un effetto  di armonia che rasentasse la  pienezza, una pienezza sempre difficile da afferrare ma la cui vicinanza gli faceva respirare continuamente l’afflato e la magia della creazione unica, assoluta. 
 La sua pittura è stata paragonata a quella del musicista che, di fronte all’ampiezza della tastiera, prova tutti i toni per distillare in ognuno l’essenza del suono puro, estraendo così l’ingrediente che ogni variazione può apportare alla sostanza dell’immagine. Così Morandi, pittore soprattutto di nature morte, bottiglie, vasi, qualche fiore e scorci di paesaggio non propriamente ameni, che “rivedeva” e”correggeva” continuamente,  riesce a esprimere sovente, al di là della sua stessa consapevolezza (o meglio della sua incontentabilità), l’inesprimibile, e forse per questo è difficile definire la sua arte con le parole. 
Bisogna guardarle, le sue opere,  sostare davanti alle sue nature morte permeate di un’aura d’infinito, osservare le casseruole sintetizzate in forme plastiche che sembrano l’alter ego degli oggetti rappresentati, emozionarsi di fronte agli improvvisi squilli di bianco e di azzurro dei vetri accanto al basso terroso dei vasi di coccio, esaltarsi davanti a  certi paesaggi che sembrano immagini di luce e di silenzio, immergersi insomma nel pathos silente e sublime dei suoi quadri per capire che la sua pittura va al di là di ogni definizione.
Morandi è senza dubbio un maestro moderno, per l’essenzialità della sua figurazione tesa alla rappresentazione più stringata delle cose, alla loro decantata purezza. Ma la sua pittura si inscrive decisamente nel solco della grande tradizione figurativa italiana. Ai suoi inizi non mancò di accostarsi alle avanguardie del Novecento; dal futuriismo, il movimento più chiassoso dell’avanguardia, fu appena sfiorato, limitandosi egli a partecipare a una “serata futurista”, presenti Boccioni e Carrà, realizzatasi a Bologna nel 1914, la città dove nacque ed operò. In seguito fu attratto dalla metafisica, allorché Carrà e De Chirico ne fondarono il movimento,  e volle dipingere alcune nature morte in chiave metafisica di fronte alle quali De Chirico non esitò a parlare di “metafisica delle cose quotidiane”. Tuttavia era già una pittura, quella di Morandi, che tendeva a una purezza ordinata e geometrica ignorata dai fondatori del movimento. Infine provò interesse per la  pittura di Cezanne a causa del fitto intreccio di piani scanditi nello spazio teso a comporre una perfetta geometria che caratterizzava il lavoro del maestro francese, quella visione che poi Braque e Picasso evolveranno o meglio semplificheranno nel cubismo. Ma Morandi, pur imbevendosi di questi influssi, non tardò ad imboccare la strada maestra del rigore e della disciplina delle forme volte all’armonia e alla purezza, una lezione che gli derivava dallo studio attento e intenso della grande pittura italiana del XV secolo, soprattutto di quella di Giotto, di Piero della Francesca, di Masaccio e di Paolo Uccello, non a caso tutti pittori che, cercando quella stessa purezza delle forme, elevarono solidi monumenti alla poesia

.
   











Gli oggetti che costituiscono la gran parte della produzione morandiana (e, direi, la migliore, senza dubbio superiore a quella rappresentata dai paesaggi e dai pochissimi ritratti), hanno, nelle diverse combinazioni in cui li ritrae il pittore, una loro muta e solenne realtà, una realtà che, attraverso lo sguardo incantato dell’artista nel momento in cui li ferma sulla tela, appaiono come una realtà altra da quella di semplici oggetti, una realtà che va oltre le pieghe più nascoste dell’apparenza. Morandi ci restituisce insomma questa realtà misteriosa, non visibile ad occhio nudo, ed è come se catturasse il fantasma dell’oggetto, anzi, che operasse una magia su quell’oggetto, riducendolo all’essenziale e facendo scaturire dal suo sembiante una vibrazione particolare capace di destare un’eco misteriosa nel nostro animo.
C’è chi parla di Morandi come di un pittore “provinciale” (non si spostò mai dalla sua Bologna, tranne nei mesi più caldi dove si ritirava nella vicina campagna) e di un “piccolo maestro” perché dipingeva solo bottiglie e casseruole e, di quando in quando (cioè durante i mesi trascorsi in campagna), lo scorcio limitato di paesaggio che vedeva dalla finestra di casa sua. Ma era un piccolo maestro come poteva esserlo un Chardin o, per altri versi, Un Veermer; artisti, cioè, che rifiutarono il grande pathos e lo scenario sfarzoso per scegliere di riprodurre l’epifania della quotidianità, il canto interiore e rarefatto che scaturisce dalle piccole cose e che, quando viene catturato, è capace di attingere un intenso lirismo.

Dionisio di Francescantonio  

Nessun commento:

Posta un commento