Questa
la trama del romanzo immaginario, che Borges si premura di attribuire alla
penna d’un inesistente avvocato di Bombay, Mir Bahadur Alì, e della quale, dopo
averla riassunta non senza indulgere a molti dettagli di colore indiano, di
derivazione kiplinghiana, ne descrive le varianti subite in due diverse
edizioni (deplorando la seconda, letterariamente meno felice della prima),
l’accoglienza lusinghiera ricevuta dal pubblico e le numerose recensioni avute
sui giornali più importanti del continente indiano, notando che i critici
segnalano, opportunamente, “il meccanismo poliziesco dell’opera e la sua undercurrent
mistica”. Dopodiché passa a discuterne i meriti e i difetti, concludendo che
l’autore, Mir Bahadur Alì, “è incapace di sottrarsi alla più goffa delle
tentazioni dell’artista: quella di essere un genio”.
Ora,
non v’è chi non colga, da quanto pur sommariamente riferito, l’intenzione
ironica del racconto, un’ironia rivolta in primis all’autore (cioè da
Borges a se stesso) e, per questa via, allo stesso esercizio della narrazione,
come se Borges mettesse le mani avanti per dichiarare la sua perplessità verso
la materia che tratta (ossia lo stesso racconto che costruisce) e in pratica
dicesse: “Guardate che questo non è un racconto, ma una finzione di
racconto” (e infatti titola Finzioni il volume che raccoglie questo e
altri racconti dello stesso genere). Il fatto straordinario è che, nonostante
tutto, Borges riesca a confezionare un prodotto che risulta alla lettura
gustoso e avvincente, ma, soprattutto, a raggiungere quella magia sottile, data
dalla sua arguta ironia, che ci fa constatare d’essere in presenza d’un
risultato di autentica letteratura d’arte. Questo, com’è ovvio, deriva dal
talento dell’autore; ma ciò che importa notare è che Borges è uno scrittore che
esercita l’arte della narrazione in una posizione che non possiamo non definire
di scetticismo.
Il
secondo esempio che mi viene in mente si riferisce a un altro scrittore, Luigi
Pirandello, il quale arriva a fare del dilemma tra arte e vita il tema stesso
della sua scrittura; tema affrontato prima in due testi narrativi, le
novelle La tragedia di un personaggio e Colloqui coi personaggi
e poi sviluppato compiutamente nel dramma Sei personaggi in cerca d’autore,
rappresentato per la prima volta a teatro nel 1921. Qui non solo siamo in
presenza di vicende prive di intreccio, di fatti – per così dire – senza
sostanza, ma ci troviamo al di qua della narrazione, addirittura sul terreno
della non vita, con personaggi privi di realtà. Non teatro della vita, dunque,
ma, letteralmente, teatro nel teatro. Non per nulla Pirandello sottotitola i Sei
Personaggi in cerca d’autore “commedia da fare”, perché, in effetti, il
dramma di questi personaggi non riesce a rappresentarsi poiché l’autore non li
ritiene completamente veri, ossia creature umanamente compiute, ma solo larve,
ombre o meglio maschere a un’unica dimensione (e infatti indossano ciascuno la
maschera con l’espressione del sentimento che li domina, vale a dire l’angoscia
del rimorso, lo sdegno vendicativo, la mortificazione, il dolore), pur pervasi
come appaiono da un anelito disperato di vita che li spinge a entrare in un
teatro e a chiedere al capocomico e agli attori che stanno provando un proprio
spettacolo di rappresentare la loro storia. Ma, appunto, benché il capocomico,
interessato dalla singolarità dei personaggi, provi a mettere in scena la
vicenda torbida e patetica che quelli gli raccontano in maniera confusa e
caotica, senza sviluppo logico e senza concatenazione di avvenimenti, ciò che
alla fine viene rappresentata è solo la commedia di un vano tentativo, giacché,
come fa notare uno dei personaggi al capocomico, “Le par possibile che si viva
davanti a uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con
l’immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia
irriconoscibile di noi stessi?” Ma tutta l’opera di Pirandello è imperniata su personaggi
che non vivono mai compiutamente la loro esistenza, condannati come sono a
“rappresentare” una parte in cui non riescono a riconoscersi e a restare quindi
prigionieri d’una maschera subìta e spesso odiata. E la sua scrittura
obbedisce perciò a questa riserva nei confronti della vita, una vita che appare
mutilata, negata, falsata, e verso la quale l’autore manifesta, anche nel modo
di rappresentarla, la sua perplessità e il suo scetticismo investendoli di
quell’umorismo nero che contraddistingue la sua maniera.
Il
terzo esempio lo trovo ancora nella letteratura, e precisamente nell’Ulisse,
ponderoso romanzo di James Yoice pubblicato nel 1922. In questo romanzo,
per raccontare la giornata di un uomo qualsiasi senza particolari qualità,
l’agente di pubblicità Leopold Bloom seguìto nelle sue peregrinazioni e nei
suoi incontri per le strade e nei locali pubblici e in quelli equivoci della
città di Dublino dalle otto del mattino alle due di notte, Yoice ricorre a una
sbalorditiva quantità di tecniche narrative che spaziano dal monologo interiore
all’imitazione del modello biblico e chiesastico, dal flusso di coscienza allo
stile cronachistico dei giornali, dalla catalogazione di fatti e persone nei
modi del registro aziendale al genere pièce teatrale, configurandosi
insomma come una summa e una
parodia degli stili più diversi che dalla lingua arcaica delle cronache
medievali arriva via via al linguaggio rozzo e gergale parlato dal popolo
minuto dei nostri giorni. Yoice, in pratica, realizza in chiave burlesca,
e quindi dissacrante, una cronaca gigantesca e onnicomprensiva di un modo di
raccontare storie per dichiararne la fine e il superamento e per l’affermazione
di uno sperimentalismo eretto a sistema, condannando quindi l’arte, come
avverrà dopo di lui, ad essere per sempre contemporanea e d’avanguardia, in
perenne e patologica ricerca di se stessa.
Forse
ancor più chiaramente di Yoice questo processo lo avvia, e lo pratica per tutta
la sua lunga vita, che occupa buona parte del Novecento, il pittore Pablo
Picasso – e siamo all’ultimo esempio della mia riflessione. Anche Picasso è
dotato d’una grande versatilità e capacità dissacratoria, ma soprattutto d’una
voracità insaziabile che gli consente di appropriarsi e di saccheggiare modi e
tecniche altrui per dichiararne il superamento verso altre maniere
d’espressione che, nelle loro forme estreme, preludono, o meglio configurano
già, l’informale e l’astratto, con tutti gli equivoci che ne deriveranno e
l’approdo verso l’inespressività e l’incomunicabilità dell’artista col pubblico
che si è drammaticamente imposto specialmente negli ultimi decenni del
Novecento, continuando a riverberarsi malinconicamente in questo primo scorcio
del nuovo secolo.
Qui,
chiaramente, ho chiamato ad esempio della mia riflessione sull’arte moderna e
contemporanea quattro giganti dell’arte, che, avendo assimilato a fondo la
tradizione della comunicazione artistica dell’Occidente, hanno voluto, con la
loro opera, postularne il superamento per aprire il discorso dell’espressione
verso nuovi orizzonti, a cui però ha fatto seguito una sempre più sterile
imitazione dei loro modi (e questo se c’era almeno sincerità di intenti),
quando non, addirittura, la ciarlataneria e l’impostura. E’ questa situazione
di impasse, quindi, che fa dire a molti di noi che “tutto è stato già
fatto”. Ma io non credo che sia così. Semplicemente noi siamo pervenuti alla
fine di un’era che, per brevità, possiamo definire di distruzione d’una
tradizione culturale, quella grande tradizione che ci avevano lasciato in
eredità i nostri progenitori. Quest’era si è consumata nel corso del Novecento,
il secolo delle ideologie distruttive che gli avvenimenti storici per fortuna
hanno demolito, ma le cui scorie circolano ancora tra noi col nichilismo che
esse diffondono nelle coscienze e che, per l’appunto, creano quel sentimento di
abulia e rassegnazione che deriva dalla sensazione che tutto ormai sia stato
detto e fatto e che, quindi, l’orizzonte sia vuoto. Si tratta, insomma, di dare
una svolta al nostro modo di concepire l’esistenza, di recuperare un nuovo
senso della vita e della storia che si ricolleghi innanzitutto alla nostra
grande tradizione e di riprendere il cammino verso nuovi orizzonti, più pieni
di significato e, soprattutto, di speranza nel futuro. Probabilmente molti di
noi sono ormai consapevoli di questo e, coloro che intendono dedicarsi alle
arti, sono già impegnati nella ricerca di nuove forme d’espressione che
vogliano ri-stabilire una autentica comunicazione col pubblico, recuperando le
tecniche e gli insegnamenti che ci avevano lasciato in eredità i nostri
progenitori. Personalmente sono convinto che gli esseri umani non smetteranno
mai di esprimere la propria visione del mondo attraverso la narrazione e la
raffigurazione della vita a dispetto di tutti coloro che pensano che non ci sia
più nulla da dire e che l’incomunicabilità si sia insediata per sempre nello
spirito dell’uomo, perché comunicare coi propri simili è un istinto
insopprimibile dell’animo umano, che durerà fin che durerà la nostra specie.
Dunque, chi ha coraggio e talento si faccia avanti, e si dia da fare.
Dionisio di
Francescantonio
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