Quando, svegliati dalla prima luce,
mettemmo il naso fuori dai finestrini del veicolo, scoprimmo d’essere
circondati da una nebbia giallina, pulverulenta, pervasa dall’oro dell’aurora,
ma fredda, umida, appiccicaticcia come una gelatina. Non si vedeva quasi nulla,
se non il fantasma di alcuni alberi e d’una serie di folti cespugli nei pressi
dell’auto. Però si sentivano i cinguettii e i chioccolii di molti uccelli, tra
cui, di quando in quando, si inseriva un singolare bramito, come un lamento
stridente e prolungato che terminava in un sospiro o sbadiglio profondo. Poi
dall’oro vischioso della bruma apparvero, stagliandosi irrealmente nel
controluce vibrante, le nere silhouette di alcuni quadrupedi. Erano
antilopi con lunghe corna appuntite come spade, immobili, tese, intente
probabilmente a fissare lo stravagante animale quale doveva apparire ai loro
occhi il nostro ingombrante pulmino. Forse il loro bramito era un appello, un
interrogativo trepido e ansioso rivolto al pachiderma sconosciuto introdottosi
in quell’alba primordiale e fantomatica a turbare il loro risveglio.
Improvvisamente risuonò uno strido lacerante come il rumore d’una saracinesca
bruscamente abbassata, forse il verso d’un grande uccello, e il gruppo di
antilopi sussultò e squassò, scomponendosi in una fuga precipitosa. Di nuovo
l’immobilità ragnata della nebbia ci circondò. Decidemmo di accendere il motore
e di muoverci con cautela nella boscaglia nebulosa. Ai lati della pista un po’
sconnessa su cui il veicolo avanzava, la prateria appariva bruciacchiata da
fuochi recenti, accesi evidentemente per limitare la crescita delle erbe e
facilitare la visione degli animali. Intanto, tra gli alberi e gli arbusti, la
luce del giorno, lottando con la bruma, componeva una sorta di sfavillante sinfonia
di colori. L’erba scintillava di palpiti dorati, di schegge di diamante. La
quieta melodia di molti uccelli sembrava accompagnare il fulgido dilagare del
chiarore. Improvvisamente, bagliori possenti irruppero nella bruma,
frantumandola e dissolvendola e incendiando la boscaglia di luce intensa.
Trasfigurate da quell’oro lucente, piccole antilopi di razza impala
con esili zampe e corni minuscoli si fronteggiavano in combattimenti giocondi,
raspando il terreno con gli zoccoletti scuri e abbassando il capo per
prepararsi al cozzo contro la rivale. Si slanciavano l’un l’altra addosso
impetuosamente per schivarsi all’ultimo istante e passare oltre indenni. Forse
mimavano per prova i futuri combattimenti d’amore, riservati a un’altra
stagione. Ma ecco che nel folto dell’erba si delineò una snella forma
accoccolata, un gattopardo dello stesso colore della vegetazione tra cui
cercava furtivamente di nascondersi. Fissava con freddi occhi elettrici, con
un’intensità quasi demoniaca, il branco di impala intento a giocare a non molti
passi di distanza. Ne vedevamo il muso striato e le orecchie tese all’indietro
nella tensione che probabilmente precede l’attacco.
Ma anche le impala si erano
accorte della presenza importuna. Cessato all’istante il loro gioco, con pochi
rapidi balzi si portarono più lontano, restando poi col muso rivolto verso il
predatore, teso il piccolo collo, vibranti i cornini, i muscoli frementi e la
piccola coda col ciuffo bianco in perpetuo movimento, pronte a scattare in
fuga. Allora il felino si levò sulle zampe, sbadigliando, si scrollò
leggermente e, con aria indifferente, trotterellò via, agitando ritmicamente la
coda lunga e sinuosa come una frusta. Ma, percorsi pochi metri, si fermò
nuovamente, si accucciò sulle zampe posteriori e, con gli occhi ridotti a
fessure e il muso immobile come una sfinge, rimase a fissare le impala,
studiandone sornionamente i movimenti. Quelle, irrequiete, non si azzardavano
più a giocare al combattimento, strappavano nervosamente ciuffi d’erba coi musi
appuntiti, sgroppavano, scalciavano l’aria, finché, vinte dalla prudenza,
ruppero tutte assieme in una fuga liberatrice, scomparendo rapidamente nel
folto della vegetazione. Il passaggio del nostro pulmino a pochi metri di
distanza non scompose il gattopardo, che restò al suo posto senza degnarci
d’una occhiata. Nell’aria risuonavano i più diversi canti di uccelli:
cinguettii sincopati, flautate melodie, stridule invettive di prefiche,
languidi appelli colmi di malinconia.
Dalle cime degli alberi branchi di
scimmie ci osservavano curiose. Le bertucce spalancavano la bocca in smorfie
beffarde, si infilavano le dita nel naso, si grattavano vigorosamente la pancia
e la zucca, agitando il corpo ritmicamente mentre emettevano un dissonante
concerto di mugolii e grugniti. Coppie stavano strettamente allacciate come per
rassicurarsi, mimando inconsapevolmente abbracci pieni di buffonesca passione.
Più avanti, un uccello folto di piume ma con ali troppo piccole per volare, del
quale nessuno di noi conosceva il nome, una creatura elegante, dalle lunghe
zampe sottili come giunchi, inseguiva a balzi una lucertola in fuga. Emettendo
un querulo e stizzito gorgheggio bloccò il piccolo rettile con la zampa
unghiuta, poi l’afferrò col becco e in un istante l’ingoiò. I suoi grandi occhi
ci osservarono freddamente mentre transitavamo a qualche metro di distanza.
Continuando ad avanzare, vedemmo un grande stagno rilucere sul nostro fianco
sinistro.
Il sole produceva scintillii vibranti sull’acqua verde e sbuffi di
vapore dorato e grugniti prolungati provenivano da essa. Sei o sette ippopotami
si crogiolavano in quell’acqua; ne vedemmo spuntare i musi rotondi e le
orecchie setolose; gli occhietti porcini osservavano con sonnacchiosa
indifferenza il nostro passaggio. Una bocca si spalancò in un sonoro sbadiglio
e un torso emerse in parte dallo stagno, forse per cercare una posizione più
comoda. Era un rotolo adiposo di carne, una massa rotonda e stillante acqua che
subito tornò a immergersi, sollevando alti spruzzi di liquido. Di nuovo risuonò
quel grido lacerante simile al suono d’una saracinesca abbassata, e uno stormo
di uccelli rossi e neri frullò via da un baobab non lontano. Passò
rumorosamente sul nostro capo, oscurando per qualche momento la luce del cielo.
Noi continuavamo a deliziarci di quanto osservavamo, nutrendo quasi l’illusione
d’esser finiti nel giardino dell’Eden, all’alba del mondo, quando gli animali
vivevano liberi e felici la loro esistenza selvaggia. Ma poi una scena feroce
ci riportò bruscamente alla cruda realtà del luogo. Repentinamente, assistemmo
alla corsa disperata d’una lepre africana inseguita dal suo nemico mortale, uno
sciacallo che mostrava ingannevoli sembianze delicate, orecchie affilate e
snelle zampe eleganti, ma implacabile nell’incalzare la preda e crudelissima
nell’afferrarla e stringerla alla gola per soffocarla. La vedemmo attoniti
portarsela via rapidamente, voltandosi intorno guardinga e dimenando
nervosamente la coda nel timore di veder comparire un animale più grande che lo
costringesse a cedere la sua vittima. Ma più tardi, consumato il nostro pranzo
natalizio all’ombra d’un grande baobab (avevamo acquistato un pollo e alcuni
dolci di miele al vicino mercato di Tambacounda per festeggiare il Natale in un
picnic nella boscaglia, divertiti, più che spaventati, dalla possibilità
d’essere osservati da qualche bestia feroce) e ripreso il nostro lento
itinerario nel parco, fummo nuovamente pervasi dalla magica impressione d’esser
finiti in un luogo delle meraviglie, dentro un universo primevo e struggente
dove la natura imperava sovrana e nel quale gli esseri viventi si svelavano ai
nostri occhi come figli o emanazioni di quell’essenza possente e incombente di
cui noi stessi, in quel momento, ci sentivamo d’esser parte, anche se non del
tutto, poiché dentro di noi restava la consapevolezza che quel rapporto
viscerale con la natura l’avevamo perduto dacché la cultura di cui
eravamo figli si configurava soprattutto come il dominio dello stato di natura
con la supremazia della tecnologia e della ragione (o dell’illusione della
supremazia della ragione); avvertendo tuttavia la nostra qualità, nonostante
tutto, come una condizione di orfanezza, come una perdita dolorosa di quel
rapporto simbiotico e di quella dialettica misteriosa che un tempo ci legava in
profondità alla natura.
Fu quando incontrammo due coppie di giraffe intente a
scambiarsi voluttuose tenerezze, intrecciando ripetutamente i lunghi colli con
femminee, serpentine e delicate movenze e lambendosi i musi con le lingue
appuntite in un ritmo misterioso, come seguendo una soave musica interiore e
componendo un quadro di armonia e di bellezza che ci affascinava i sensi e
stordiva la mente. Oppure allorché, al crepuscolo, nell’ora di tregua in cui
tutti gli animali vanno a bere, vedemmo uno stagno rotondo dove tuffavano il
muso, incoronati di scarlatto dalla luce morente, il bufalo e l’antilope,
l’istrice e lo sciacallo, la bertuccia e il facocero. La malìa del Continente
Nero ci lambiva con forza, trasmettendoci quella sorta di nostalgia o anelito
misterioso che qualcuno ha chiamato “mal d’Africa”. Ma – ci chiedevamo – in che
consisteva quella magia che ci trasmetteva un sentimento di languore e di
struggimento così intenso? Probabilmente proveniva dal fatto che la natura
africana è di una qualità radicalmente diversa da quella dell’Europa. La natura
africana è grandiosa, possente, onnipresente. E gli animali africani, immersi
in quel paesaggio primordiale, sembravano rievocare veramente i tempi della
creazione del mondo. Il Continente Nero (almeno nel lembo di natura
primitiva presso la quale ci trovavamo in quel momento, dove le tristi
condizioni dell’Africa contemporanea apparivano sbiadite e lontane) sembrava
proprio configurare non tanto un sogno d’evasione nell’esotismo quanto
l’immagine emblematica di ciò che di più arcaico si nasconde nelle profondità
del nostro essere, nelle pieghe più occulte della nostra psiche, ancora memori
delle nostre origini oscure. E probabilmente il cosiddetto “mal d’Africa” non è
altro che l’accentuazione particolare della memoria d’una nostra condizione
remota, di impulsi segreti che hanno come comun denominatore la nostalgia, cioè
quel che chiamerei desiderio di “tornare alla madre” intesa come terra madre
o madre natura. Ma forse questo sentimento veniva complicato
ulteriormente da un altro elemento imponderabile. Probabilmente l’Africa –
quell’Africa, almeno, che avevamo sotto gli occhi in quel momento – rimane
tuttora una porta spalancata ai sogni infantili d’un paradiso perduto che si
possa vivere concretamente, un potente polo d’attrazione per noi occidentali
malati irrimediabilmente di quello struggimento indeterminato descritto tanto
spesso nel ricco filone della lirica romantica nostalgica, volta al rimpianto
del passato svanito; rimpianto o nostalgia, occorre però notare, che, anche
quando sembra riferirsi a un’infanzia dell’umanità ormai perduta, è indirizzata
in realtà a una condizione che non c’è stata mai: a una pienezza di significato
e di felicità che abbiamo soltanto immaginata, e che tuttavia rimpiangiamo come
qualcosa che ci sia stata negata o alienata.
Dionisio
di Francescantonio
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