martedì 25 dicembre 2012

NEL PARCO NIOKOLO KOBA DEL SENEGAL



Quando, svegliati dalla prima luce, mettemmo il naso fuori dai finestrini del veicolo, scoprimmo d’essere circondati da una nebbia giallina, pulverulenta, pervasa dall’oro dell’aurora, ma fredda, umida, appiccicaticcia come una gelatina. Non si vedeva quasi nulla, se non il fantasma di alcuni alberi e d’una serie di folti cespugli nei pressi dell’auto. Però si sentivano i cinguettii e i chioccolii di molti uccelli, tra cui, di quando in quando, si inseriva un singolare bramito, come un lamento stridente e prolungato che terminava in un sospiro o sbadiglio profondo. Poi dall’oro vischioso della bruma apparvero, stagliandosi irrealmente nel controluce vibrante, le nere silhouette di alcuni quadrupedi. Erano antilopi con lunghe corna appuntite come spade, immobili, tese, intente probabilmente a fissare lo stravagante animale quale doveva apparire ai loro occhi il nostro ingombrante pulmino. Forse il loro bramito era un appello, un interrogativo trepido e ansioso rivolto al pachiderma sconosciuto introdottosi in quell’alba primordiale e fantomatica a turbare il loro risveglio. Improvvisamente risuonò uno strido lacerante come il rumore d’una saracinesca bruscamente abbassata, forse il verso d’un grande uccello, e il gruppo di antilopi sussultò e squassò, scomponendosi in una fuga precipitosa. Di nuovo l’immobilità ragnata della nebbia ci circondò. Decidemmo di accendere il motore e di muoverci con cautela nella boscaglia nebulosa. Ai lati della pista un po’ sconnessa su cui il veicolo avanzava, la prateria appariva bruciacchiata da fuochi recenti, accesi evidentemente per limitare la crescita delle erbe e facilitare la visione degli animali. Intanto, tra gli alberi e gli arbusti, la luce del giorno, lottando con la bruma, componeva una sorta di sfavillante sinfonia di colori. L’erba scintillava di palpiti dorati, di schegge di diamante. La quieta melodia di molti uccelli sembrava accompagnare il fulgido dilagare del chiarore. Improvvisamente, bagliori possenti irruppero nella bruma, frantumandola e dissolvendola e incendiando la boscaglia di luce intensa.
 Trasfigurate da quell’oro lucente, piccole antilopi di razza impala con esili zampe e corni minuscoli si fronteggiavano in combattimenti giocondi, raspando il terreno con gli zoccoletti scuri e abbassando il capo per prepararsi al cozzo contro la rivale. Si slanciavano l’un l’altra addosso impetuosamente per schivarsi all’ultimo istante e passare oltre indenni. Forse mimavano per prova i futuri combattimenti d’amore, riservati a un’altra stagione. Ma ecco che nel folto dell’erba si delineò una snella forma accoccolata, un gattopardo dello stesso colore della vegetazione tra cui cercava furtivamente di nascondersi. Fissava con freddi occhi elettrici, con un’intensità quasi demoniaca, il branco di impala intento a giocare a non molti passi di distanza. Ne vedevamo il muso striato e le orecchie tese all’indietro nella tensione che probabilmente precede l’attacco.
Ma anche le impala si erano accorte della presenza importuna. Cessato all’istante il loro gioco, con pochi rapidi balzi si portarono più lontano, restando poi col muso rivolto verso il predatore, teso il piccolo collo, vibranti i cornini, i muscoli frementi e la piccola coda col ciuffo bianco in perpetuo movimento, pronte a scattare in fuga. Allora il felino si levò sulle zampe, sbadigliando, si scrollò leggermente e, con aria indifferente, trotterellò via, agitando ritmicamente la coda lunga e sinuosa come una frusta. Ma, percorsi pochi metri, si fermò nuovamente, si accucciò sulle zampe posteriori e, con gli occhi ridotti a fessure e il muso immobile come una sfinge, rimase a fissare le impala, studiandone sornionamente i movimenti. Quelle, irrequiete, non si azzardavano più a giocare al combattimento, strappavano nervosamente ciuffi d’erba coi musi appuntiti, sgroppavano, scalciavano l’aria, finché, vinte dalla prudenza, ruppero tutte assieme in una fuga liberatrice, scomparendo rapidamente nel folto della vegetazione. Il passaggio del nostro pulmino a pochi metri di distanza non scompose il gattopardo, che restò al suo posto senza degnarci d’una occhiata. Nell’aria risuonavano i più diversi canti di uccelli: cinguettii sincopati, flautate melodie, stridule invettive di prefiche, languidi appelli colmi di malinconia.
Dalle cime degli alberi branchi di scimmie ci osservavano curiose. Le bertucce spalancavano la bocca in smorfie beffarde, si infilavano le dita nel naso, si grattavano vigorosamente la pancia e la zucca, agitando il corpo ritmicamente mentre emettevano un dissonante concerto di mugolii e grugniti. Coppie stavano strettamente allacciate come per rassicurarsi, mimando inconsapevolmente abbracci pieni di buffonesca passione. Più avanti, un uccello folto di piume ma con ali troppo piccole per volare, del quale nessuno di noi conosceva il nome, una creatura elegante, dalle lunghe zampe sottili come giunchi, inseguiva a balzi una lucertola in fuga. Emettendo un querulo e stizzito gorgheggio bloccò il piccolo rettile con la zampa unghiuta, poi l’afferrò col becco e in un istante l’ingoiò. I suoi grandi occhi ci osservarono freddamente mentre transitavamo a qualche metro di distanza. Continuando ad avanzare, vedemmo un grande stagno rilucere sul nostro fianco sinistro. 

Il sole produceva scintillii vibranti sull’acqua verde e sbuffi di vapore dorato e grugniti prolungati provenivano da essa. Sei o sette ippopotami si crogiolavano in quell’acqua; ne vedemmo spuntare i musi rotondi e le orecchie setolose; gli occhietti porcini osservavano con sonnacchiosa indifferenza il nostro passaggio. Una bocca si spalancò in un sonoro sbadiglio e un torso emerse in parte dallo stagno, forse per cercare una posizione più comoda. Era un rotolo adiposo di carne, una massa rotonda e stillante acqua che subito tornò a immergersi, sollevando alti spruzzi di liquido. Di nuovo risuonò quel grido lacerante simile al suono d’una saracinesca abbassata, e uno stormo di uccelli rossi e neri frullò via da un baobab non lontano. Passò rumorosamente sul nostro capo, oscurando per qualche momento la luce del cielo. Noi continuavamo a deliziarci di quanto osservavamo, nutrendo quasi l’illusione d’esser finiti nel giardino dell’Eden, all’alba del mondo, quando gli animali vivevano liberi e felici la loro esistenza selvaggia. Ma poi una scena feroce ci riportò bruscamente alla cruda realtà del luogo. Repentinamente, assistemmo alla corsa disperata d’una lepre africana inseguita dal suo nemico mortale, uno sciacallo che mostrava ingannevoli sembianze delicate, orecchie affilate e snelle zampe eleganti, ma implacabile nell’incalzare la preda e crudelissima nell’afferrarla e stringerla alla gola per soffocarla. La vedemmo attoniti portarsela via rapidamente, voltandosi intorno guardinga e dimenando nervosamente la coda nel timore di veder comparire un animale più grande che lo costringesse a cedere la sua vittima. Ma più tardi, consumato il nostro pranzo natalizio all’ombra d’un grande baobab (avevamo acquistato un pollo e alcuni dolci di miele al vicino mercato di Tambacounda per festeggiare il Natale in un picnic nella boscaglia, divertiti, più che spaventati, dalla possibilità d’essere osservati da qualche bestia feroce) e ripreso il nostro lento itinerario nel parco, fummo nuovamente pervasi dalla magica impressione d’esser finiti in un luogo delle meraviglie, dentro un universo primevo e struggente dove la natura imperava sovrana e nel quale gli esseri viventi si svelavano ai nostri occhi come figli o emanazioni di quell’essenza possente e incombente di cui noi stessi, in quel momento, ci sentivamo d’esser parte, anche se non del tutto, poiché dentro di noi restava la consapevolezza che quel rapporto viscerale con la natura l’avevamo perduto dacché  la cultura di cui eravamo figli si configurava soprattutto come il dominio dello stato di natura con la supremazia della tecnologia e della ragione (o dell’illusione della supremazia della ragione); avvertendo tuttavia la nostra qualità, nonostante tutto, come una condizione di orfanezza, come una perdita dolorosa di quel rapporto simbiotico e di quella dialettica misteriosa che un tempo ci legava in profondità alla natura.
Fu quando incontrammo due coppie di giraffe intente a scambiarsi voluttuose tenerezze, intrecciando ripetutamente i lunghi colli con femminee, serpentine e delicate movenze e lambendosi i musi con le lingue appuntite in un ritmo misterioso, come seguendo una soave musica interiore e componendo un quadro di armonia e di bellezza che ci affascinava i sensi e stordiva la mente. Oppure allorché, al crepuscolo, nell’ora di tregua in cui tutti gli animali vanno a bere, vedemmo uno stagno rotondo dove tuffavano il muso, incoronati di scarlatto dalla luce morente, il bufalo e l’antilope, l’istrice e lo sciacallo, la bertuccia e il facocero. La malìa del Continente Nero ci lambiva con forza, trasmettendoci quella sorta di nostalgia o anelito misterioso che qualcuno ha chiamato “mal d’Africa”. Ma – ci chiedevamo – in che consisteva quella magia che ci trasmetteva un sentimento di languore e di struggimento così intenso? Probabilmente proveniva dal fatto che la natura africana è di una qualità radicalmente diversa da quella dell’Europa. La natura africana è grandiosa, possente, onnipresente. E gli animali africani, immersi in quel paesaggio primordiale, sembravano rievocare veramente i tempi della creazione del mondo.  Il Continente Nero (almeno nel lembo di natura primitiva presso la quale ci trovavamo in quel momento, dove le tristi condizioni dell’Africa contemporanea apparivano sbiadite e lontane) sembrava proprio configurare non tanto un sogno d’evasione nell’esotismo quanto l’immagine emblematica di ciò che di più arcaico si nasconde nelle profondità del nostro essere, nelle pieghe più occulte della nostra psiche, ancora memori delle nostre origini oscure. E probabilmente il cosiddetto “mal d’Africa” non è altro che l’accentuazione particolare della memoria d’una nostra condizione remota, di impulsi segreti che hanno come comun denominatore la nostalgia, cioè quel che chiamerei desiderio di “tornare alla madre” intesa come terra madre o madre natura. Ma forse questo sentimento veniva complicato ulteriormente da un altro elemento imponderabile. Probabilmente l’Africa – quell’Africa, almeno, che avevamo sotto gli occhi in quel momento – rimane tuttora una porta spalancata ai sogni infantili d’un paradiso perduto che si possa vivere concretamente, un potente polo d’attrazione per noi occidentali malati irrimediabilmente di quello struggimento indeterminato descritto tanto spesso nel ricco filone della lirica romantica nostalgica, volta al rimpianto del passato svanito; rimpianto o nostalgia, occorre però notare, che, anche quando sembra riferirsi a un’infanzia dell’umanità ormai perduta, è indirizzata in realtà a una condizione che non c’è stata mai: a una pienezza di significato e di felicità che abbiamo soltanto immaginata, e che tuttavia rimpiangiamo come qualcosa che ci sia stata negata o alienata.



Dionisio di Francescantonio

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