Il linguaggio cinematografico
nasce dalla sintesi o dalla fusione delle altre arti, in particolare della
letteratura e della pittura. Kurosawa trova la propria ispirazione da fonti
letterarie che vanno dal teatro No ai
grandi testi dell’antica letteratura giapponese, ma anche da autori come
Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij e Pirandello. Nelle arti figurative è
influenzato certamente da pittori giapponesi come Hiroshige, ma anche da artisti
come Van Gogh per la drammatica carica visionaria dei quadri del pittore
olandese che sa trasferire in tante sue sequenze, e soprattutto dal nostro
Paolo Uccello, a cui non smette di guardare per comporre le sue straordinarie
scene di guerra, dove riesce a far muovere grandi masse di comparse secondo
disegni precisi che mirano, pur nella concitazione degli eventi, a raggiungere
un effetto d’armonia che richiama immediatamente l’equilibrio compositivo del
grande pittore italiano. Poi vi sono gli
influssi più diretti ricevuti da altri autori cinematografici: dal giapponese
Satsuo Yamamoto, suo mentore e maestro nel muovere i primi passi come cineasta,
ma anche dall’americano John Ford, il primo in Occidente a capire la genialità
del giovane regista giapponese e a trasmettergli quel gusto di passare, nelle
scene di battaglia, dall’affresco corale al dettaglio di taluni duellanti, un
accorgimento che nasce con l’epica di Omero e che si trasfonde in Tolstoj, non
a caso un autore, quest’ultimo, a cui guardarono con molta attenzione i registi
che si cimentarono nelle grandi scene di battaglia, il capostipite dei quali si
può individuare senz’altro in Sergej Ejzenstejn.
Come tutti i grandi artisti,
Kurosawa è un testimone puntuale dei drammi e della violenza che hanno
caratterizzato il secolo in cui è vissuto. Il suo cinema descrive la fine di
un’epoca e dei suoi valori comunitari e del vuoto esistenziale che si
accompagna all’avvento di un mondo nuovo, più cosmopolita e assai più spietato.
Non a caso tra le sue fonti citiamo Pirandello, l’autore di Uno nessuno e centomila e cantore della
relatività e dell’indeterminatezza dell’esistenza nel secolo che è dietro le
nostre spalle. Rashomon, storia d’una
donna strappata da un bandito al legittimo consorte, rappresenta il dramma del
relativismo che sfocia nella negazione nichilistica del valore della verità,
dove i vari testimoni che raccontano ciascuno a suo modo la vicenda non fanno
altro che deformare i fatti per proprio tornaconto, svelando così un egoismo
esasperato che preferisce la menzogna all’affermazione della giustizia. Così in
Kagemusha, la controfigura che viene
sostituita dai dignitari all’imperatore morto per evitare lacerazioni e
conflitti al clan della dinastia regnante, rigidamente legata al senso
dell’onore e al rispetto delle tradizioni, finisce per identificarsi nell’uomo
di cui ha assunto la parte e di scegliere di morire come sarebbe morto
l’imperatore allorché, scoperta da tutti la sua finzione e cacciato in malo
modo dai dignitari che l’avevano scelto, il clan di cui ormai ritiene di far
parte viene assalito e distrutto da un clan rivale che ha già scelto la
modernità e che muove in battaglia dotandosi di armi da fuoco, mentre il clan
tradizionalista si affida ancora all’arma bianca. Memorabile, in questo film,
la carica suicida dell’esercito armato di sole lance e spade e il carnaio di
uomini e cavalli giacente al suolo sul quale corre il Kagemusha per essere immolato a sua volta dalla fucileria
che ha falciato il suo esercito. Da
tutti i film di Kurosawa si ricava una lezione amara e crudele: che il mondo è
sordido e dominato dal male e che, come dice un personaggio di Ran, uno dei suoi film più importanti:
“Gli uomini sono pazzi, preferiscono la sofferenza alla gioia”. La filmografia
del regista giapponese è molto ricca. Mi limito a citare solo i titoli più
noti: L’angelo ubriaco, I sette samurai, Trono di sangue, I
bassifondi, Dersu Uzala, Rapsodia d’agosto e, soprattutto, il già
citato Ran, un film straordinario,
questo, uno di quei capolavori assoluti che ti fanno capire come il cinema
possa essere un veicolo straordinario di grandi emozioni, angoscia, orrore, pietà, di quel pathos potente e
coinvolgente, insomma, che ti inchioda davanti allo schermo e ti lascia una
profonda impressione che non dimenticherai più.
Ran in giapponese richiama i termini occidentali di “caos”,
“disordine”, sconvolgimento” e si riferisce ad un mondo senza più leggi né
pietà: quello delle guerre feudali giapponesi del XVI secolo in cui si svolge
la vicenda del film, ma soprattutto è un’immagine cupa e terribile del mondo
contemporaneo. La vicenda è modellata sul Re
Lear di Shakespeare ed è la storia di un signore della guerra che ha trascorso
la vita a sottomettere i clan rivali e che, all’età di settant’anni, decide di
abbandonare il potere e di dividere terre e castelli tra i tre figli. E’ la
tragedia testamentaria della decadenza fisica, del distacco dal potere e dalle
cose del mondo, ma anche il terribile bilancio esistenziale di un uomo e di un
genitore che ha dedicato la vita alla violenza e al sopruso offrendo ai figli
quell’unico modello di ferocia che essi si affretteranno a ripercorrere
scagliandosi l’uno contro l’altro e poi contro lo stesso genitore non appena
vengono affrancati dalla sua tutela. C’è un unico figlio, il più giovane,
capace ancora di nutrire un certo affetto per il padre, ma lo nasconde sotto
un’ironia mordace contro la decisione paterna quando gli manifesta la sua
contrarietà alla divisione del regno con l’esempio delle tre frecce disunite che
si possono spezzare con molta facilità. Ma il vecchio scambia la sua franchezza
per avversione contro di lui e lo bandisce dal regno. Solo quando i due
fratelli si sono divorati tra loro e costretto il padre a vagare ramingo e
ormai privo di ragione con la sola compagnia del suo buffone, il giovane,
alleatosi con un altro signore di cui ha sposato la figlia, torna per rimettere
ordine nel caos provocato dai fratelli, ma nel corso della battaglia finale,
mentre ritrova e riabbraccia il vecchio genitore, muore colpito da un
proiettile vagante, e il dolore del
padre è così violento da averne il cuore stroncato. Il messaggio di
questo film così cupo è quindi molto chiaro: la guerra in cui alla fine tutti
muoiono e tutto si distrugge è solo frutto della sete smodata di potere che
sconfina nell’insensatezza.
Dionisio di Francescantonio
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