"Per
quanto istruito dalla lettura di resoconti di viaggio di altri viaggiatori
europei ad assistere a quella contaminazione tra mondo africano e mondo
occidentale e già provvisto di un certo scetticismo verso il bisogno di novità
incondizionata che anima ogni viaggiatore, non potevo sottrarmi al morso
fastidioso della delusione e dell'insoddisfazione di fronte alla presenza
invadente degli attributi più insulsi della mia cultura già nel mio primo
approccio con quell'altra parte del mondo; forse perché la concezione del viaggio
come esperienza che rinnovi e rigeneri, qual era quella che mi aveva indotto a
quella partenza, non può fare a meno di immaginare un orizzonte al di là del
quale sopravviva un universo diverso e sconosciuto, o almeno il più strano e
inatteso possibile rispetto al nostro; uno spazio originale, una realtà
alternativa a quella per noi abituale, dove, in un clima di novità assoluta,
attingere un'esperienza unica e irripetibile... Mi accorgevo che una parte di
me bramava quell'ignoto, non solo, ma che, scavando più a fondo, nei miei più
remoti desideri sopravviveva addirittura la speranza che il mio itinerario non
ignorasse nemmeno l'incontro con una realtà del tutto sconosciuta e impensata,
la scoperta di un lembo di autentica verginità culturale, ancora immune
dall'influenza della nostra civiltà. Come Gilgames, l'eroe dell'epopea
mesopotamica del terzo millennio avanti Cristo, dentro di me covavo il sogno di
giungere "là dove non è stato ancora scritto il nome di nessun uomo";
o come Ulisse, a me più vicino e affine, bramavo ancora di poter incontrare "genti
che non conoscono il mare, che non mangiano cibi conditi con sale". La
verità è che, pur senza esserne consapevole, non avevo fatto altro che
inserirmi, mettendomi in cammino verso quelle contrade remote e ignote, nel
solco di un itinerario che l'uomo dell'Occidente ha percorso per tutta la sua
storia... Un itinerario che simboleggia la nostra sete insaziabile di conoscenza e
che riassume i due poli – quello positivo: l'intraprendenza nell'esplorazione
del conoscibile; quello negativo: la tracotanza di chi presume di poter tutto
assimilare e omologare al proprio sistema di valori – tra cui ha oscillato
ininterrottamente la nostra cultura... Ma su questa strada l'umanità
occidentale, nell'ultimo scorcio della sua storia, ha finito per smarrire se
stessa, mostrandosi sempre più animata dalla volontà di spingersi oltre il
proprio orizzonte etico e culturale, sperimentando tutti i principi e tutte le
dottrine e mettendo incessantemente in discussione la definizione di sé e del
mondo. E questo modo di procedere reca un rischio formidabile, quello di
precipitare ad ogni passo nell'indeterminatezza culturale e nel caos morale,
ciò che, purtroppo, negli anni più recenti è diventata una triste realtà (o
quasi)".
Il tema del viaggio è affascinante e praticamente
inesauribile. Fa parte della storia dell'umanità e se ne potrebbe scrivere per
volumi e volumi. Io ne ho scritto saltuariamente, perché nella mia prima
giovinezza il viaggio è stato - come posso dire? – un grande interesse, anzi un'autentica passione. Qualcosa ho pubblicato sotto forma di articoli, negli
anni scorsi, altre cose le ho nel cassetto, e forse resteranno lì per sempre. Il
viaggio è un terreno di metafore, un giardino di simboli con cui si esprimono
transizioni e trasformazioni d'ogni genere. Si attinge all'esperienza della
mobilità umana per esprimere il significato della morte, intendendola come
"trapasso", quello della struttura della vita definendola come
"un cammino" o un "pellegrinaggio", quello del mutamento
d'età (celebrato specialmente nelle culture primitive, mentre in quelle
evolute, almeno oggi, quasi per niente) o di condizione sociale (per esempio da
quella di scapolo a quella di ammogliato) come un "passaggio" (ossia
transito, attraversamento) mediante il rito che lo sancisce. Il viaggio
evidentemente è un agente e un modello di trasformazione, un'esperienza di
mutamento familiare a tutti gli esseri umani dal momento in cui acquistano la
possibilità di spostarsi da un luogo all'altro e quindi da una condizione
all'altra. Coi termini latini experior
ed experimentum, da cui
"esperimento" si indicava l'esperienza come "cimento", come
passaggio attraverso una forma d'azione che misurava la dimensione e la natura
autentica della persona che l'intraprendeva, e alludeva anche alla concezione
più generale degli effetti del viaggio sul viaggiatore. L'idea che il viaggio
sia un'esperienza che mette alla prova e perfeziona il carattere del
viaggiatore, che lo fa "crescere", risulta dall'aggettivo tedesco bewandert che oggi vuol dire
"sagace" o "esperto" ma che originariamente qualificava
proprio "chi aveva viaggiato molto". Similmente, una delle prime
concettualizzazioni del viaggio come la "sopportazione d'una prova",
come l' "affrontare un cimento" lo si trova nel termine inglese travail (viaggio).
Le identità dei popoli, laddove si conservano, sono ancora vive, oggi, nelle piccole comunità e, per lo più, in ambiente rurale. Le metropoli sono tutte omologate al modello invivibile della città modernista, nemica dell'uomo e ostile ad ogni radicamento. E’ quindi auspicabile, ove si voglia restare legati alla nostra identità, il ritorno all'agricoltura e all'artigianato (anche per tutelarci da quell'economia fasulla basata sulla carta straccia dei titoli di borsa in mano alle grandi lobby oligopolistiche che intossicano, letteralmente, l'economia reale e che oggi sono in grado di ridurre sul lastrico popoli e paesi con estrema facilità). Su questa questione, l'Italia, in Europa, se si muovesse per tempo, potrebbe ancora farcela, così come possono farcela comunità di nicchia d'altre parti del mondo.
Dionisio di Francescantonio
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