Ecco, più di ogni altro a
proposito, l’arco di Settimio Severo, il monumento eretto per celebrare le
gesta di colui che, divenuto, da generale al comando di valorose legioni,
imperatore di Roma dopo aver posto fine a un periodo di torbidi e di anarchia
in cui l’autorità imperiale era temporaneamente inciampata, conferì a Leptis,
dov’egli era nato, il suo aspetto straordinario, possente e magnifico. Settimio
Severo era un uomo dei confini dell’impero, un esponente di quelle etnie
assoggettate a Roma e poi assimilate; scuro di pelle e afflitto da un forte
accento punico-libico di cui non riuscì mai a liberarsi (originariamente Leptis
era un insediamento cartaginese), ascese al rango di imperatore non solo per le
sue notevoli qualità di stratega militare, ma precisamente per la sua totale e
starei per dire viscerale romanizzazione. Se, com’è logico ritenere, a quei
tempi i meccanismi psicologici non differivano da quelli attuali, la
conversione dell’uomo alla romanità fu tanto più piena e convinta in quanto
egli non era cittadino romano per diritto di nascita, ma per volontà di
identificazione. Va da sé che, proprio per questo, volle, da imperatore, fare
del proprio luogo natio (che prima della sua ascesa al potere supremo era solo
una colonia ancora soggetta al versamento del tributo alla Madre Patria), una
delle città romane più belle e sfarzose di tutto l’impero.
Proseguendo la visita, ecco le Terme di
Adriano (del 126 d. C., queste) le quali, oltre ad indicarci come la città, anche
prima dell’intervento severiano, fosse tutt’altro che una colonia di poco
conto, senza dubbio perché la sua posizione mercantile eminentemente strategica
le garantiva la gestione d’una ingente ricchezza (porto di grande movimento
collocato al termine d’una importantissima carovaniera attraverso la quale
pervenivano i prodotti esclusivi dei mercati dell’Africa nera, essa alimentava
costantemente i gusti raffinati ed “esotici” della Madre Patria), ci
introducono, quasi didatticamente, alla funzione delle terme, ricordandoci come
la civiltà romana riuscisse sempre a coniugare l’efficienza
politico-amministrativa e le virtù militari con una spiccata propensione alla
piacevolezza del vivere. All’interno delle terme, la natatio precedeva le stanze del frigidarium,
del tepidarium e del calidarium, nomi da cui indoviniamo
facilmente la destinazione d’uso degli ambienti. Nei sudatorii erano ancora visibili – e forse, volendo, funzionanti – i
tubi attraverso i quali era destinato a passare il vapore bollente alimentato
alla fonte da un fuoco incessante: un sistema idrico sorprendentemente evoluto
che, dopo due millenni, ispira per molti aspetti tecniche e soluzioni ancora
adottate nel nostro mondo ipertecnologicizzato. E qui non posso rinunciare a
formulare una piccola ma necessaria puntualizzazione. Ormai la maggioranza di
noi ignora, perché nessuno ce lo ricorda più da tanto tempo, che la civiltà da
cui nasciamo aveva già scoperto tutto (o quasi) ciò che occorre per rendere
facile e gradita l’esistenza e che essa si riflette sui nostri giorni non certo
unicamente come testimonianza archeologica o come motivo di ricerche erudite,
ma soprattutto quale eredità tangibile e ancora attiva nel mondo in cui
viviamo, e beninteso non solo nel campo della tecnica e della meccanica ma
anche in quello, fondamentale, delle scienze sociali, prima fra tutte l’arte
del Diritto.
D’altronde, il piacere del
vivere, inteso come vero e proprio gusto estetico dell’ambiente dove
l’esistenza si svolge (da considerarsi all’opposto del gusto di coloro che
hanno voluto misurare gli ambienti costruiti dall’uomo, da un certo momento in
poi della nostra storia, esclusivamente col metro della cosiddetta
funzionalità, quella funzionalità coniugata fatalmente alla bruttezza e allo
squallore che l’avvento dell’estetica
modernista ha portato con sé), si respirava a Leptis a profusione e
continuava a riversarsi su di me ovunque guardassi e dirigessi i miei passi.
Anzi, per meglio dire, la città stessa, con le sue soluzioni urbanistiche e
architettoniche spesso ardite, fantasiose e sempre sospette di concedersi al
puro piacere dell’apparire – da cui l’effetto scenografico di gusto teatrale
che poteva suggerire ma dal quale la riscattava continuamente il virtuosismo
dello stile architettonico e l’intelligenza e nobiltà della concezione
urbanistica – si configurava come un autentico sogno estetico, un sogno
autorevole di pura bellezza. Sull’orlo di quel sogno, era facile per me
immaginare quale piacere e vorrei dire genuina e ininterrotta voluttà dovesse essere
per gli abitanti vivere in un luogo simile, specialmente se paragonavo, com’era
inevitabile, la loro esistenza a quella che è costretta a condurre buona parte
di noi negli abominevoli insediamenti costruiti a ridosso e in parte anche
dentro le incantevoli città che a quel modello classico avevano ispirato il loro divenire fino a non molto
tempo fa.
Toccavo insomma con mano come la
città romana, per chi vi abitava, dovesse rappresentare, oltre al luogo dove si
lavora ci si diverte e si sogna ad occhi chiusi o aperti, una perenne
educazione alla bellezza, una consuetudine a nutrirsi di ciò che di più sublime
e confortevole offre l’ingegno e il talento dell’uomo posti al servizio della
comunità; ed io ritrovavo per l’appunto a Leptis le radici della mia cultura e
l’essenza stessa del gusto di vivere trasmessomi in dote da quei miei magnifici
antenati e dalle generazioni delle età successive che non hanno mai smesso di
richiamarsi ad esso: quel gusto che neppure la barbarie del secolo appena
trascorso ha potuto offuscare del tutto e che forse potremo ancora recuperare,
se saremo capaci di tornare ad esercitare quell’intelligenza alleata al buon
senso da troppo tempo negletta o smarrita nel decidere il modo e il come
configurare la nostra esistenza.
Percorrendo l’ampia e solenne via colonnata, esempio d’un virtuosismo architettonico e monumentale stupefacente, raggiunsi il porto, il grandioso Porto Nuovo fatto costruire anch’esso da Settimio Severo in sostituzione di uno precedente, al quale attraccavano le grandi navi nelle cui stive venivano ammassati, oltre al grano e all’olio ricavato dagli ulivi coltivati nella piana stessa di Leptis, all’epoca verde e feconda, l’oro e l’avorio destinati a rifornire i banchi degli artigiani romani e gli animali feroci – leoni, leopardi, rinoceronti – diretti verso le arene dell’impero per essere impiegati nei giochi riservati al divertimento dei cittadini romani. Il porto severiano ormai si mostrava semisommerso dalla sabbia; il mare che anticamente lo lambiva era stato respinto lontano; solo qua e là la pietra corrosa e scheggiata della banchina conservava il supporto d’aggancio dell’anello di ferro al quale un tempo venivano assicurate le cime delle navi imponenti. L’intera insenatura destinata ad ospitare le imbarcazioni appariva interrata, come d’altronde sepolta e occultata da migliaia di metri cubi di sabbia era rimasta tutta la città fino a quando i preziosi scavi realizzati da archeologi italiani nel periodo della nostra occupazione della Libia non la riportarono alla luce, riscattandola finalmente da quella sabbia tuttora presente ai suoi piedi e il cui riflesso, anche dall’interno della città liberata, non mancava di ferire gli occhi.
Percorrendo l’ampia e solenne via colonnata, esempio d’un virtuosismo architettonico e monumentale stupefacente, raggiunsi il porto, il grandioso Porto Nuovo fatto costruire anch’esso da Settimio Severo in sostituzione di uno precedente, al quale attraccavano le grandi navi nelle cui stive venivano ammassati, oltre al grano e all’olio ricavato dagli ulivi coltivati nella piana stessa di Leptis, all’epoca verde e feconda, l’oro e l’avorio destinati a rifornire i banchi degli artigiani romani e gli animali feroci – leoni, leopardi, rinoceronti – diretti verso le arene dell’impero per essere impiegati nei giochi riservati al divertimento dei cittadini romani. Il porto severiano ormai si mostrava semisommerso dalla sabbia; il mare che anticamente lo lambiva era stato respinto lontano; solo qua e là la pietra corrosa e scheggiata della banchina conservava il supporto d’aggancio dell’anello di ferro al quale un tempo venivano assicurate le cime delle navi imponenti. L’intera insenatura destinata ad ospitare le imbarcazioni appariva interrata, come d’altronde sepolta e occultata da migliaia di metri cubi di sabbia era rimasta tutta la città fino a quando i preziosi scavi realizzati da archeologi italiani nel periodo della nostra occupazione della Libia non la riportarono alla luce, riscattandola finalmente da quella sabbia tuttora presente ai suoi piedi e il cui riflesso, anche dall’interno della città liberata, non mancava di ferire gli occhi.
Per spiegare la scomparsa della
vita a Leptis Magna e il suo insabbiamento, che ne ha permesso la conservazione
in gran parte integrale fino ai nostri giorni, è stata avanzata, accanto alle
cause più generali della decadenza e della fine dell’impero romano, prime fra
tutte le invasioni barbariche e i disordini e le distruzioni che ne
scaturirono, un’ipotesi naturalistica di indubbia suggestione. Secondo questa
ipotesi, la grande prosperità della città finì per provocare un eccessivo
aumento dei suoi abitanti, saliti, al culmine del processo di inurbamento,
oltre le centomila unità, un conglomerato umano enorme per i tempi di cui
parliamo. La necessità di disporre di sempre nuovo terreno agricolo per
garantire il nutrimento alla popolazione crescente indusse i governanti di
Leptis al progressivo abbattimento delle
cospicue foreste che una volta la circondavano, fino alla loro completa
estinzione. Il suolo fertile, senza più radici vegetali capaci di trattenerlo,
finì per essere trascinato via dal vento e dalla pioggia. Ed ecco dove,
massimamente, andò a riversarsi: in quel mare che consentiva alle navi di
approdare al suo scalo. Con l’insabbiamento del bacino del porto cessarono i
floridi commerci da cui derivava la ricchezza della città e il terreno,
desertificato, smise di produrre il grano e ogni altro frutto necessario
all’alimentazione degli abitanti. Così cessò lentamente la vita a Leptis Magna;
e quella che fu una delle città più splendide dell’impero romano decadde e fu
gradualmente abbandonata, per essere poi ricoperta col tempo dalla sabbia del
deserto accumulatale addosso ogni giorno dal soffio tenace dei venti.
Dionisio di Francescantonio
Nessun commento:
Posta un commento